Quando martedì 15 aprile gli osservatori dell’associazione Antigone entrano per una visita alla casa di reclusione di Vigevano – terza in Lombardia dopo Opera e Bollate – piove. L’acqua filtra in varie sezioni del carcere, tra cui la “sartoria”, uno spazio di lavoro del reparto femminile di alta sicurezza. C’è un secchio appoggiato sulla presa elettrica per raccogliere l’acqua che scende dal soffitto. «Non toccate la presa, per carità» raccomanda l’ispettrice. «Guardi che il salvavita si attiva subito, è l’unica cosa che funziona qui dentro», risponde una detenuta.

Costruito nel 1988 e aperto nel 1993, l’istituto ha funzionato come casa circondariale fino al 2014, per poi essere riconvertito in casa di reclusione, destinata quindi a detenuti con pene definitive, spesso lunghe o lunghissime. Nonostante sia considerato un carcere «relativamente nuovo», versa già in condizioni critiche, con problemi strutturali e logistici diffusi.

Quando piove, molte aree della struttura si allagano: non solo celle e spazi comuni, ma anche i laboratori e perfino gli uffici. Tutte le coperture dei tetti andrebbero rifatte, ma si tratta di lavori costosi che non possono essere decisi autonomamente dall’amministrazione del carcere: è necessaria l’autorizzazione del provveditorato.

Nel frattempo, si vive in un ambiente umido e fatiscente. Gli unici lavori in corso riguardano il reparto di isolamento, danneggiato da un incendio parecchio tempo fa.

Sovraffollamento e personale carente

Il tasso di sovraffollamento è del 150 per cento: 365 detenuti a fronte di 242 posti regolamentari. Le donne sono 80, mentre gli stranieri sono 179, pari al 49 per cento del totale. Una percentuale molto più alta rispetto a quella registrata nelle altre due case di reclusione lombarde, Bollate e Opera, dove la maggiore integrazione con il territorio milanese garantisce una presenza più consistente di volontari e associazioni capaci di colmare, almeno in parte, le carenze strutturali e istituzionali.

A Vigevano, invece, i volontari sono pochi. E questo non significa solo meno corsi, laboratori o opportunità formative, ma anche maggiori difficoltà per portare a termine pratiche burocratiche. Ad esempio, molti detenuti stranieri non riescono a rinnovare il permesso di soggiorno perché non c’è nessuno che possa portare fisicamente i kit per il rinnovo negli uffici competenti.

Ma ci sono carenze ancora più gravi: in tutto l’istituto non è presente nemmeno un mediatore culturale, rendendo difficile qualsiasi forma di comunicazione tra le persone detenute straniere e l’amministrazione. Un cortocircuito che, in carcere, ha molte conseguenze: l’impossibilità di far sentire la propria voce genera frustrazione, sofferenza e rabbia, che spesso si traducono in eventi critici – autolesionismo, aggressioni, rivolte, talvolta suicidi.

Condizioni di detenzione

Nel reparto femminile manca persino l’acqua calda. «Le docce si fanno fredde», raccontano le detenute agli osservatori di Antigone. Una donna con difficoltà motorie, sottoposta a chemioterapia, vive in cella senza assistenza: si muove con le stampelle, non ha nessun tipo di aiuto o cura infermieristica. I volontari di Antigone non hanno potuto incontrare il direttore sanitario della struttura.

La sezione ex articolo 32 viene chiamata “il reparto degli agitati” e raccoglie i detenuti considerati problematici, quelli in isolamento disciplinare, i più marginali e spesso i più sofferenti. Il corridoio ha un lato di celle e uno di finestre, ma nessuna delle vetrate è integra. La pioggia entra a raffiche – si cerca di isolare con delle buste dell’immondizia attaccate con lo scotch – il pavimento è sporco, i muri imbrattati di cibo, fluidi, c’è addirittura un uovo spiaccicato sul muro.

In una cella bruciata, un uomo si muove tra i sanitari rotti e l’acqua che ha invaso il pavimento. È stato sottoposto a due Tso (trattamento sanitario obbligatorio) nei giorni precedenti, senza che nessuno formulasse una diagnosi. Ricoverato e ricondotto in carcere, senza presa in carico.

Anche sul fronte del lavoro la situazione è problematica. Nonostante l’apertura della cooperativa Bee4, che impiega una ventina di detenuti, le attività restano poche, soprattutto per le donne. Le opportunità di lavoro esterno sono rare e spesso irraggiungibili: quattro detenuti potrebbero essere impiegati da Arcaplanet, ma non esistono mezzi pubblici che li colleghino al luogo di lavoro. C’è un solo autobus, e segue gli orari scolastici. A volte passa, a volte no.

Ampliare le sofferenze

Il carcere di Vigevano è oggi al centro di un vecchio progetto di ampliamento: due nuovi padiglioni da 40 posti ciascuno, in un’area verde. Ma ampliare una struttura senza ripensarne la funzione rischia di essere un investimento a vuoto.

«Serve una riflessione seria: ha senso tenere una casa di reclusione in un territorio così isolato, senza trasporti, con pochi volontari e percorsi trattamentali quasi assenti?», si chiede Valeria Verdolini, presidente di Antigone Lombardia. Forse, aggiunge, «sarebbe più coerente trasformarla in casa circondariale, oppure investire davvero nel trattamento. Altrimenti, l’unica cosa che cresce è la sofferenza. E la distanza, ormai enorme, tra il carcere e il resto della società».

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