Le associazioni Lgbtq+: «Gli spazi sicuri li creano i corpi che li attraversano». Rachele Giuliano, presidente di Arcigay Roma: «È anche una risposta emotiva. Siamo arrabbiate, ogni giorno succede qualcosa, ogni giorno c’è una nuova violenza. E tutto si tiene: la matrice della transfobia, del femminicidio, della violenza di genere è la stessa»
«È un vento che sale questa rabbia», Camilla Ranauro, presidente del Cassero Lgbtq+, misura lo stato d’animo della comunità Lgbtq+ che dopo l’ennesima aggressione transfobica ai danni di tre ragazze trans ha attraversato le strade di Bologna il 3 giugno in segno di protesta.
«Non abbiamo voluto aspettare. Siamo scese in piazza subito dopo la notizia, in contemporanea con il brutale assassinio di una coppia nel loro appartamento, alla Bolognina. Il corteo è stato uno dei più intensi degli ultimi anni. Faccio attivismo da tredici anni: c’è tanta rabbia, la pazienza è finita».
Il “corteo di sorellanza” si ripeterà oggi a Roma, dalle 18 a piazzale del Verano. Proprio nella città dove nella notte tra il 31 maggio e il primo giugno, tre donne transgender sono state brutalmente aggredite e rapinate da un gruppo di dieci uomini in viale delle Provincie, quartiere universitario. Calci, pugni e insulti transfobici, mentre alcuni passanti ridevano e filmavano la scena, condividendo l’orrore sui social.
La “camminata arrabbiata” per le strade è una forma di protesta, nata dal movimento femminista degli anni ’70 contro la violenza sessuale, consiste in passeggiate notturne per rivendicare il diritto a spazi sicuri. Oggi, queste camminate tornano per affermare che gli spazi sicuri li creano i corpi che li attraversano.
«Il corteo ha una duplice ragione. È una scelta di movimento, in contrasto con la piazza stanziale e ha un significato simbolico: prendere posizione visibile rispetto a quello che sta accadendo. Percorrere le strade significa esporsi, portare la rabbia e il dolore fuori, tra la gente», spiega Rachele Giuliano, presidente di Arcigay Roma: «È anche una risposta emotiva. Siamo arrabbiate, ogni giorno succede qualcosa, ogni giorno c’è una nuova violenza. E tutto si tiene: la matrice della transfobia, del femminicidio, della violenza di genere è la stessa».
Il senso di abbandono e di paura è la benzina che muove la rabbia di alcune frange del movimento arcobaleno. Subito dopo l’aggressione transfobica, sui social network sono stati pubblicati i nomi e i cognomi degli aggressori e i loro profili social. Cristina Leo, attivista trans dell’associazione Libellula ha pubblicamente commentato: «Non credo minimamente alla versione della tentata rapina. Uno degli aggressori è proprietario di un Barber Shop, un altro di un'azienda edile. È sul profilo Facebook di quest'ultimo ho trovato questa foto».
La foto è quella di una scritta sul muro: “Fascist Love”. Un atto di denuncia pubblica volto a supplire all’assenza di tutela istituzionale. Questa forma di “giustizia fai-da-te” nasce dalla percezione di abbandono da parte dello Stato e rappresenta una risposta collettiva alla violenza subita. «L’impunità di chi commette reati come questi – e parlo anche di violenze sessuali – è eclatante», spiega Ranauro.
«Che tipo di fiducia può avere una persona emarginata, criminalizzata, nel sistema giudiziario istituzionale? Molto poca. Per questo comprendo l’urgenza di risposta che attraversa la comunità, la volontà di agire subito, scavalcando i tempi e i limiti dei processi istituzionali. Detto questo, il nostro sforzo è costruire una società diversa. Non si può chiedere alla nostra lotta di essere sempre paziente. C’è una stanchezza profonda che si sente».
Specifica Giuliano per Arcigay Roma: «Le istituzioni non ci sono. Non c’è una legge contro la discriminazione. Chi commette questi atti passa impunito. Questo è un movimento di rabbia ma non rispondiamo con la violenza».
Eppure cova sotto la cenere un sentimento di rivalsa. In questo contesto nero per la comunità, le “camminate arrabbiate” e la pubblicazione dei nomi degli aggressori vengono viste come l’unica risposta collettiva a un clima di crescente di repressione e transfobia istituzionalizzata. Ma forme di autodifesa collettiva, come quella del corteo, rischia di essere criminalizzate dal nuovo Ddl Sicurezza, approvato dal governo Meloni.
La legge introduce 14 nuovi reati e 9 circostanze aggravanti, tra cui l’inasprimento delle pene per chi blocca strade o partecipa a manifestazioni non autorizzate. «Alcune pratiche di manifestazione che abbiamo sempre adottato, penso come Rivolta Pride, oggi le portiamo avanti con maggiore cautela. Dobbiamo tutelare le persone che partecipano alle nostre mobilitazioni», dice Ranauro che racconta cosa può significare, per una persona trans, ricevere un foglio di via: «Finire in celle detentive non conforme alla propria identità di genere, per esempio.
A Bologna un ragazzo trans ha ricevuto un foglio di via con il suo dead name, ignorando quello dei suoi documenti: anche questa è una forma di violenza». In un’Italia dove la sicurezza sembra essere garantita solo a chi si conforma, camminare insieme diventa un atto rivoluzionario: «Questo mese del Pride nasce teso. Le mobilitazioni della comunità Lgbtq+ attraverso i Pride restano una forma potentissima di protesta. Siamo oltre “Love is love”. Siamo una forza collettiva che chiede ascolto, presenza, diritti».
© Riproduzione riservata