L'uccisione di Giovanni Falcone è sempre più lontana e in Italia c'è chi vuole rifare a tutti i costi la storia di quel 1992, vuole staccare una strage dall'altra, ridurre una stagione intera a uno "spezzatino antimafia” recidendo collegamenti e incroci, legami tra personaggi inquietanti, oscurando contesti che potrebbero - nonostante il tempo trascorso - far emergere frammenti di verità su mandanti che non siano sempre e solo Totò Riina e Leoluca Bagarella
C’è stato l’anniversario della sedia vuota del sindaco di Palermo, c’è stato l’anniversario delle cariche di polizia contro un pacifico corteo antimafia, c’è stato l’anniversario delle divisioni fra i familiari delle vittime più illustri e poi c’è questo 23 maggio, anche lui molto speciale, nel segno di un passato da ribaltare e cancellare per sempre.
È l’anniversario delle vendette, dirette e trasversali, plateali o mascherate, violentissime comunque. Sarà ricordato come una celebrazione attraversata da regolamenti di conti la trentatreesima dalla bomba di Capaci, ex imputati che danno la caccia a pubblici ministeri, commissioni parlamentari d’inchiesta che non fanno inchieste, incriminazioni e intercettazioni a tappeto riservate a magistrati, generali ancora sott’indagine ascoltati come oracoli.
L’uccisione di Giovanni Falcone è sempre più lontana e in Italia c’è chi vuole rifare a tutti i costi la storia di quel 1992, vuole staccare una strage dall’altra, ridurre una stagione intera a uno “spezzatino antimafia” recidendo collegamenti e incroci, legami tra personaggi inquietanti, oscurando vicende che potrebbero – nonostante il tempo trascorso – far emergere frammenti di verità su mandanti che non siano sempre e solo Totò Riina e Leoluca Bagarella.
Il cavallo di Troia per smontare tre decenni di risultanze processuali e complicate investigazioni è quel famigerato dossier su mafia e appalti redatto nel 1991 dai reparti speciali dei carabinieri di Mario Mori e di Giuseppe De Donno, un rapporto che si è trasformato in un totem, la scatola nera per offrire ogni spiegazione possibile su chi e perché ha deciso la morte di Paolo Borsellino.
Dando per scontato, ovvio, che l’attentato di via Mariano D’Amelio con la strage di Capaci abbia solo una concomitanza temporale e niente più. Matrici diverse, mandanti diversi. E così per le successive bombe del 1993 di Milano e Roma e Firenze. Nessuna strategia della tensione, nessun piano unico per terrorizzare l’Italia come in realtà è avvenuto.
Una banalizzazione degli eventi che si sono susseguiti e che ha coinvolto delitti eccellenti ancora più lontani come quello di Piersanti Mattarella, il presidente della regione siciliana e fratello del capo dello Stato ucciso giù a Palermo il giorno dell’Epifania del 1980.
Anche per quell’omicidio, di alta mafia e di politica, più italiano che siciliano, oggi s’inseguono moventi "minimi”, locali, piccoli appalti, l’ombra del solito Vito Ciancimino – l’ex sindaco mafioso di Palermo sta diventando la chiave preferita per decifrare ogni massacro – i sospetti che si (ri)concentrano su sicari delle famiglie già abbondantemente trascinati dai pentiti nelle indagini una trentina di anni fa e poi usciti.
È il nuovo corso, una restaurazione culturale ancora prima che investigativa, fra Roma e la Sicilia si fa sponda, sintonie politiche e giudiziarie dietro quel dossier su mafia e appalti che alla fine si sta rivelando soltanto una leva per scardinare ben altro. Un contesto intorno al quale non sembrano affatto estranei rancori personali e incomprensioni antiche.
E poi un’azione giudiziaria sorprendente. Sono finiti sott’inchiesta per favoreggiamento mafioso magistrati come Gioacchino Natoli o Michele Prestipino, travolto anche l’ex procuratore capo della repubblica di Roma Giuseppe Pignatone, intercettato per fatti di oltre tre decenni fa l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro.
È il clima di questo 23 maggio 2025. Con una legge per espellere con un pretesto il senatore Roberto Scarpinato, l’ex procuratore generale a Palermo che ha condotto indagini sulle permanenti relazioni fra boss e neri, dalla commissione parlamentare antimafia.
Con una querela acrobatica presentata dalla presidente Chiara Colosimo contro il giornalista Saverio Lodato, colpevole di averla ricordata in posa, mano nella mano, con Luigi Ciavardini, il terrorista dei Nuclei armati rivoluzionari condannato a 30 anni per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Con il procuratore Nino Di Matteo braccato, nel mirino dei suoi ex imputati nel processo sulla trattativa Stato-Mafia.
Attacchi a tenaglia, una commissione parlamentare che indaga a senso unico, con qualcuno che parla ormai di un “depistaggio istituzionale” che si sta sovrapponendo ai tanti depistaggi già consumati intorno alle stragi siciliane.
E poi c’è qualcun altro che sembra avere sempre più paura che, inaspettatamente, si possa scoprire ancora oggi qualcosa su chi ha voluto la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
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