Mi muovo ogni giorno tra le pieghe del cosiddetto "disordine” inasprisce la rabbia e affina la lucidità. Vivo a Mestre - città-laboratorio di contraddizioni sociali e tentativi di riparazione – e qui lavoro e dialogo con un gruppo di donne detenute del carcere della Giudecca. Il nostro è un confronto che scorre ai margini, lontano dai luoghi dove il potere definisce cosa è ordine e cosa è disordine. Il punto d’osservazione è decentrato, ma è dai margini che il potere mostra la sua vera forma: selettiva, repressiva, talvolta violenta.

Nella prospettiva dei governi moderni, ordine si configura come sinonimo di controllo, sicurezza, tracciamento dei confini e neutralizzazione delle anomalie. O, in linea con il pensiero di Agamben, l’ordine è il risultato di una rete di dispositivi che operano per neutralizzare ciò che devia, eccede, disturba. Tracciamento, sorveglianza, gestione algoritmica dei comportamenti: l’ordine diventa sinonimo di programmazione. All’opposto, c’è il pensiero di Giordano Bruno per cui, invece, l’ordine si rivela una condizione dinamica, una rete di relazioni in continuo mutamento, un’armonia fluida che si oppone alla fissità imposta dal potere.

Questa dicotomia sembra aprire un abisso tra due visioni del mondo apparentemente inconciliabili, eppure la filosofia bruniana, con la sua radicale sovversione dell’autorità gerarchica, può avere ancora molto da insegnare nel contesto contemporaneo.

La giustizia dinamica

Nell’universo di Bruno, non esistono confini fissi né strutture immutabili: la stabilità è frutto di un’interazione costante tra le parti, non di una gerarchia che impone regole dall’alto. Questo paradigma, se traslato alla sfera sociale, suggerisce che il benessere collettivo potrebbe derivare non tanto da un aumento del controllo, quanto piuttosto dalla creazione di condizioni che favoriscano l’integrazione e la coesistenza dinamica.

Un esempio emblematico di questa tensione tra ordine imposto e ordine emergente si manifesta nella mia città, Mestre, dove osservo quotidianamente gli effetti di una politica che ha tradotto la nozione di sicurezza in un progressivo processo di militarizzazione dello spazio urbano.

Eppure, nonostante la presenza capillare del controllo urbano, in carcere mi ritrovo a parlare con le stesse ragazze tossicodipendenti che vivono per strada: donne che per procurarsi da vivere o da drogarsi hanno aggredito, rubato, si sono prostituite in quel sottopassaggio che sorvegliamo ma non ci sentiamo responsabili di trasformare.

L’assenza di investimenti nelle periferie, la chiusura di servizi pubblici essenziali e il declino delle politiche sociali vengono mascherati dall’incremento delle misure di sorveglianza, l’installazione di telecamere e il dispiegamento di pattuglie. Tuttavia, questa sicurezza fondata sulla repressione non fa che generare una percezione illusoria di ordine, celando il degrado e l’emarginazione dietro un apparato securitario sempre più pervasivo.

Esiste un’altra via, suggerita dal pensiero bruniano: la vera stabilità urbana non si ottiene attraverso la segregazione e il controllo, bensì tramite strategie di inclusione, di valorizzazione degli spazi pubblici e di partecipazione attiva dei cittadini, affinché la sicurezza diventi il prodotto naturale di una società più coesa e meno conflittuale. E in Italia di esempi riusciti ce ne sono tanti come i Bagni pubblici di via Aglié nel quartiere Barriera di Torino, i Cantieri Culturali alla Zisa a Palermo, Spazio Stria e il Circolo Nadir a Padova in Piazza Gasparotto.

Il dl Sicurezza

Le recenti politiche securitarie traducono invece il concetto di sicurezza in esigenza del controllo sociale, piuttosto che di tutela del benessere collettivo. Il Decreto Sicurezza, con le sue misure di criminalizzazione della marginalità e di inasprimento delle pene per i reati di strada, rappresenta una risposta miope che ignora le cause strutturali del disagio.

Il problema non è solo la presenza capillare e intimidatoria di forze dell’ordine nelle città, ma il modo in cui esse vengono utilizzate per sopprimere anziché prevenire le tensioni sociali. L’apparato legislativo si concentra sulla deterrenza, anziché sulla creazione di percorsi di integrazione, alimentando un circolo vizioso di marginalizzazione e conflitto sociale. La stessa narrazione securitaria che giustifica l’aumento della sorveglianza urbana viene applicata alla gestione dei migranti, rafforzando l’idea che l’ordine possa essere raggiunto solo attraverso il disciplinamento e la segregazione.

Mestre ne offre un esempio paradigmatico: l’apparato securitario non risponde a un’effettiva emergenza sociale, ma si alimenta di un’ansia collettiva costantemente amplificata dal discorso politico e mediatico. Basti pensare alla retata del 2017 in via Piave, una delle più imponenti mai condotte nella zona, con decine di arresti, perquisizioni e il coinvolgimento massiccio delle forze dell’ordine. Nonostante l’operazione, il quartiere ha continuato a essere percepito come insicuro, e nel tempo ha visto una crescente militarizzazione, con controlli a tappeto, sorveglianza rafforzata e interventi di “alto impatto” ripetuti negli anni successivi — fino alla maxi-operazione del 2024, con 14 arresti e 30 chili di cocaina sequestrati. Tuttavia, questa infrastruttura repressiva non ha impedito il verificarsi di eventi tragici che hanno scosso profondamente la città negli ultimi mesi: l’uccisione di Giacomo Gobbato, colpito a morte in Corso del Popolo, e i due stupri avvenuti a distanza di pochi giorni in pieno centro di Mestre, che hanno riacceso una paura diffusa e un senso di insicurezza profonda.

Questi interventi, pur mostrando una risposta muscolare dello Stato, non sembrano affrontare le cause profonde del disagio, come la povertà abitativa, la tossicodipendenza, la mancanza di servizi e spazi sociali. Così, la sorveglianza, ovvero ciò che riteniamo essere “sicurezza” diventa una messa in scena, una rassicurazione simbolica che trasforma il bisogno di protezione in una strategia di governo delle emozioni collettive.

Ripristinare l’equilibrio

Un altro concetto chiave nel pensiero di Bruno è quello di giustizia cosmica: le azioni non vengono giudicate secondo un sistema binario di premi e punizioni, ma seguono un principio di riequilibrio naturale. La visione bruniana ci invita dunque a superare l’idea antropocentrica di giustizia come esercizio del potere sull’altro, per abbracciare una prospettiva in cui il ripristino dell’equilibrio ha più valore dell’atto punitivo.

Un modello possibile, in questa direzione, concepisce la giustizia come un processo che restituisce le persone alla trama delle relazioni da cui provengono.

Se Basaglia aprì i manicomi alla città, trasformando la sofferenza psichica in esperienza condivisa, noi possiamo immaginare che anche l’errore diventi occasione di riconoscimento, di parola, di presenza. Dobbiamo pretendere che la giustizia si sposti nei luoghi della vita: nei quartieri, nelle scuole, negli spazi pubblici; che agisca attraverso il coinvolgimento, l’ascolto, la responsabilità collettiva; che rimetta in circolo ciò che si era spezzato, generando legami nuovi e più forti.

A Mestre esistono realtà che operano già con questi obiettivi, coltivando forme di presenza solidale e partecipazione civica: il centro autogestito Pandora, animato da ragazze e ragazzi che promuovono pratiche mutualistiche; il Gruppo di Lavoro di Via Piave, impegnato nell'animazione del quartiere e nella costruzione di comunità; la parrocchia della Cita, che da anni rappresenta un presidio sociale in un quartiere segnato dalla marginalità. E si potrebbero citare anche iniziative meno visibili, come orti collettivi, laboratori culturali o scuole popolari, che restituiscono dignità e possibilità là dove troppo spesso si tende a vedere solo devianza. Sono esperienze ancora troppo poche, e soprattutto non abbastanza riconosciute come valore pubblico dalla nostra amministrazione.

In questa prospettiva, l’ordine non coincide con la norma imposta, ma nasce dall’incontro tra differenze che imparano a coesistere e a riconoscersi mutualmente.

Il nostro attuale sistema penale, invece, isola, punisce e frammenta. Invece di curare le relazioni, rompe i legami; invece di riconoscere la complessità dei vissuti, appiattisce le responsabilità; invece di cercare il riequilibrio, perpetua il danno.

Forse è proprio questo il limite più profondo delle politiche di sicurezza: credere che il conflitto possa essere eliminato, anziché attraversato; che l’ordine sia qualcosa da difendere con le armi, e non da costruire con la giustizia.

Parlare di ordine, oggi, significa interrogarsi su chi lo definisce, su chi lo custodisce e su chi lo subisce. Bruno ci insegna che l’ordine autentico non nasce dalla soppressione del disordine, ma dalla sua trasformazione in relazione viva e fertile. In equilibrio tra forze che si riconoscono.

In un presente dove ogni insicurezza viene caricata di paura e ogni differenza è letta come minaccia, la sfida è riconoscere l’ordine come relazione, come ascolto, come mutuo adattamento, rappresenta un gesto di profonda resistenza. È una prospettiva che richiede coraggio e consapevolezza, che impone di restare dentro le tensioni anziché reprimerle. E che, proprio per questo, può offrirci strumenti per immaginare modi (mondi) più giusti, più liberi e più umani di convivere.

*Giulia Ribaudo (Venezia, 1990) è HR Business Partner di Arsenalia. Nel 2016 ha fondato Closer, un’associazione culturale che promuove attività all'interno del carcere femminile della Giudecca. Dal 2020 cura, insieme a Severino Antonelli, PIOMBI, la newsletter di Closer per parlare di carcere, libertà, giustizia e ingiustizie.

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