Se le concrete motivazioni del nuovo “travel ban” imposto dal tycoon sono opache e le giustificazioni poco credibili, la sua simbologia e i suoi obiettivi appaiono al contrario trasparenti: si colpiscono deliberatamente paesi “altri” in termini razziali o religiosi
Era atteso, questo nuovo “travel ban” di Donald Trump che proibisce l’ingresso negli Usa a cittadini di dodici paesi, per lo più africani e mediorientali, ma che include ora anche Haiti. Un divieto più ampio e meno selettivo di quello – controverso e subito contestato – che aprì la prima esperienza presidenziale di Trump nel 2017 e che s’indirizzava solo a paesi a maggioranza musulmana. Tra di essi vi erano Siria e Iraq, che oggi non sono invece inclusi.
Le motivazioni della scelta dei dodici non sono del tutto chiare. Trump invoca, al solito, ragioni di sicurezza nazionale, su tutte la minaccia di azioni terroristiche da parte d’immigrati provenienti da quei paesi. Fa riferimento al recente, terribile attentato antisemita a Boulder. Ma non estende ovviamente il divieto a quello di provenienza dell’attentatore, l’Egitto: alleato fondamentale degli Usa nonché secondo principale beneficiario degli aiuti militari statunitensi.
Se le concrete motivazioni della scelta sono opache e le giustificazioni formali poco credibili, la sua simbologia e i suoi obiettivi appaiono al contrario trasparenti. Si colpiscono deliberatamente paesi “altri” in termini razziali o religiosi. E si colpiscono paesi attraversati da profonde crisi interne verso i quali vi dovrebbe essere un surplus di attenzione e umanitarismo. Tanto che nel solo 2024 questi paesi ottennero quasi 200mila visti da parte del governo statunitense, per lo più per ragioni umanitarie.
Come tanti altri ordini esecutivi di questi primi mesi di presidenza, anche il nuovo “travel ban” serve a sostanziare quell’immagine di decisionismo e muscolarità che sono così centrali nella narrazione Maga di un presidente pronto a mettere l’America e gli americani prima di tutto. Che non si piega a chi invoca atteggiamenti caritatevoli e altruisti, quando la brutale e anarchica arena delle relazioni internazionali richiede invece durezza e sprezzante cinismo. Nella ostentata Realpolitik nazionalista di Trump non vi è insomma posto per generosità e umanitarismo.
Ovvero, vi è in modo selettivo e molto discriminatorio. Ad esempio, per bianchi sudafricani vittime di un genocidio che Trump inventa con ampio uso di fonti e immagini fasulle. E questo ci porta alla seconda spiegazione del nuovo divieto: quella razziale e religiosa, così centrale in tante delle azioni del Trump II, a partire dagli arresti arbitrari e dalle espulsioni di studenti.
La storia degli Stati Uniti è stata spesso segnata da due concezioni diverse di quello che la nazione statunitense è e deve essere: una essenzialista, razziale e sostanzialmente immutabile; e un’altra civica, costituzionale, cangiante che si è espressa nella forma della presunta diluizione delle diversità nel melting pot repubblicano o nella sua esaltazione in un mosaico multietnico e multirazziale.
Con Trump (e in conseguenza della elezione del primo presidente afroamericano nel 2008) questa dialettica è tornata con forza, radicalità e, anche, violenza. Il razzismo di Trump è noto e di lungo corso, come la sua storia imprenditoriale e pre presidenziale ben ci ricorda. In parte, ma solo in parte, ovattato e contenuto nella sua prima esperienza presidenziale, oggi è invece visibile e finanche esibito.
Gli haitiani banditi dagli Usa sono quelli che, affermò durante il dibattito presidenziale con Kamala Harris, rubano e cucinano i poveri cani e gatti degli onesti cittadini statunitensi. Sono parte di quel mondo diverso, altro e straniero che – come disse in campagna elettorale – rischia di «avvelenare il sangue degli Stati Uniti»: di contaminarne e alterarne la natura ultima. Provengono da paesi «di merda» – come affermò nel 2018 – e non purtroppo «dalla Norvegia».
Cinismo e razzismo, Realpolitik e discriminazione si mescolano e sovrappongono nello spiegare un provvedimento illustrativo come pochi altri dell’approccio e della mentalità di questo presidente e del mondo suprematista – a particolare dal suo consigliere speciale, Stephen Miller – che oggi lo affianca e sostiene.
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