Nei secoli si è provato a spiegarne la rilevanza in molti modi: è associato a elementi primordiali ma è anche stata la prima tinta “prodotta” dagli esseri umani. E anche se non è più il colore più amato in Occidente, mantiene un certo fascino, come ripercorre la mostra di arte e moda della Fondazione Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti a Roma
Nel teatro di Atene, nel 458 a.C., un attore che indossa le vesti del re di Argo nell’Agamennone di Eschilo calpesta del tessuto rosso: è uno dei momenti chiave della tragedia, in cui si suggella il destino violento del sovrano. Cammina su quel drappo su invito della moglie Clitemnestra che vuole disperatamente vendicarsi dell’uomo che ha ucciso la sua figlia primogenita Ifigenia, sacrificata sull’altare di Artemide per placare i mari e partire per Troia. Cammina su quella stoffa, simbolo di opulenza e potere, e commette un atto di hybris verso gli dei, oltre ad offrire un’inquietante premonizione della sua morte sanguinosa, che arriverà di lì a poco.
Ma anche un atto che con ogni probabilità era immediatamente riconoscibile per il pubblico democratico ateniese nella sua sfumatura politica: nolente o volente, Agamennone si presenta come un sovrano orientale, forse riporta alla mente il “tiranno” imperatore di Persia, Serse I, che Atene avevano sconfitto vent’anni prima a Salamina. Si può andare oltre ancora e pensare, come propone la grecista britannica Edith Hall, che la scena generasse istintiva indignazione negli spettatori perché conoscevano bene cosa voleva dire all’epoca produrre il rosso come tintura, il lavoro che c’era dietro, quale oltraggio era calpestarlo.
A prescindere dall’interpretazione (discussa) di questa scena, c’è un dato. Quando Eschilo ha messo in scena la trilogia dell’Orestea quasi due millenni e mezzo fa, il rosso faceva già parte da tempo della storia dell’uomo, ed era già pieno di significati simbolici. Nei secoli successivi si sarebbero evoluti e sarebbero mutati tantissime volte, sempre mantenendo però quella peculiare centralità nella storia dell’arte e delle culture materiali, che l’Agamennone rendeva evidente nel 458 a.C.
Perché il rosso
Sangue, fuoco, potere, sesso, pericolo. Le associazioni mentali che facciamo di fronte al rosso sono molte e contraddittorie. «Il rosso è il colore archetipico», ha scritto l’antropologo Michel Pastoureau in Rosso, uno dei volumi della sua monumentale storia dei colori, edita in Italia da Ponte alle Grazie. «Benché ai giorni nostri, in Occidente, il colore di gran lunga preferito sia il blu, e nella vita quotidiana il rosso abbia ormai un ruolo più discreto – quanto meno se lo si confronta con quello che aveva nell’Antichità greco-romana o nel Medioevo – il rosso rimane comunque il colore più forte, il più degno di nota, il più ricco di orizzonti poetici, onirici o simbolici».
Questo primato ha a che fare con ragioni antropologiche (l’associazione con elementi primordiali come fuoco e sangue), ma forse anche materiali. È anche stata la prima tinta, come nota lo stesso Pastoureau, a essere prodotta dagli esseri umani. Un fatto che descrive anche il graphic designer Riccardo Falcinelli, che nel suo libro Cromorama (Einaudi 2017) commenta il dibattito scientifico sul fatto che nei poemi omerici la parola blu ad esempio non compare e il mare viene definito “color del vino”: «Mentre per il blu o il verde bisogna aspettare la civiltà egizia e per il malva la rivoluzione della chimica, i pigmenti rossi si estraggono con facilità dalla terra e li si usa per dipingere fin dalla Preistoria. Nelle volte affrescate di Lascaux c’è il rosso, non ci sono il verde, il malva o il blu; ed è chiaro che l’uomo inventa parole per le cose che usa davvero. È possibile allora che il rosso sia stato il primo a ricevere un nome anzitutto perché è stato il primo a essere usato in attività artigianali».
C’è conclave e Conclave
Anche se non è più centrale come nel mondo antico, è difficile negare la presenza materiale e visuale di questo colore ancora oggi. Non soltanto nell’uso della segnaletica. Il rosso ha dominato infatti alcuni degli eventi più fotografati e più scenografici degli ultimi anni: i funerali di papa Francesco e il conseguente conclave. Il 26 aprile il sagrato di San Pietro era ricoperto da una marea di paramenti rossi: una scelta, quella di questo colore liturgico, che è in realtà relativamente recente. Se infatti è lunga tradizione che il pontefice venga sepolto con i paramenti rossi, soltanto dopo la riforma liturgica è diventato il colore anche di chi celebrava il funerale del papa.
E poi la processione dei cardinali, vestiti con l’abito corale, rosso acceso, che entrano nella Cappella Sistina prima dell’extra omnes. I principi della chiesa indossano questo colore perché è un simbolo del martirio: come hanno ricordato spesso i papi prima dei concistori, i cardinali sono chiamati a testimoniare la fede usque ad effusionem sanguinis, fino allo spargimento di sangue.
Anche se si parla di “porporati”, il rosso che indossano oggi i cardinali è più caldo rispetto a quello che definiamo porpora. Tanto che nel film Conclave la responsabile dei costumi l’ha trovato poco efficace sullo schermo.
«Siamo stati a Roma e abbiamo visto gli abiti dal vivo e come il loro colore rosso brucia negli occhi. Il colore reale è piuttosto arancione», ha detto Lisy Christl, costumista del thriller candidato all’Oscar. «Ho lavorato con una mia amica, Marie Heitzinger, che è un’artista tessile. Le ho mostrato i dipinti rinascimentali, i rossi», ha aggiunto, «e poi ha iniziato a tingere le stoffe a partire da dipinti come quelli di Velázquez o Francis Bacon. Direi che il nostro rosso è più blu e più caldo».
L’ultimo imperatore in mostra
A custodire a Roma l’eredità “rossa” degli imperatori non è però soltanto il papa. Nel 2008 è uscito un documentario sullo stilista Valentino Garavani intitolato L’ultimo imperatore. Valentino ha, in senso molto letterale, un fil rouge che attraversa la sua opera: un abito della sfumatura di rosso che è arrivata a portare il suo nome è sempre stato incluso in ogni sua collezione.
Questo fil rouge è celebrato nella mostra Orizzonti-Rosso, esposta nel neoinaugurato spazio della Fondazione Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti, PM23, a poca distanza dalla sede della maison in piazza di Spagna. Gli abiti rossi dello stilista, a partire dal suo primo, Fiesta, del 1959 sono esposti insieme a opere d’arte contemporanea: quasi due percorsi paralleli, come ha spiegato Pamela Golbin, curatrice della mostra, in cui i vestiti e le opere d’arte raccontano il rosso come bellezza, identità, emotività, superficie e sogno.
In mostra si trovano quindi opere in prestito da fondazioni o da collezioni private, come il ritratto in rosso di Valentino firmato da Andy Warhol, le tele di Fontana, le dune di Francis Bacon. Ci sono il dipinto di Jean-Michel Basquiat In this case, un enorme teschio rosso, omaggio all’artista afroamericano Michael Stewart, morto dopo essere stato arrestato dalla polizia. C’è l’intimità delle braccia rosse di 10 a.m. is when you come to me di Louise Bourgeois. E poi la decostruzione dei simboli politici in Hammer and sickle, sempre di Warhol, e l’arte povera della Torino industriale di Alighiero Botta, con i pannelli di metallo dipinti di vernice per auto Rosso Guzzi Rosso Gilera. Fino ad arrivare all’unica opera commissionata per la mostra, due gigantesche fotografie del francocanadese Thomas Paquet che abbracciano l’esposizione di abiti rossi di Valentino. Abiti che stanno anche in tutte le altre stanze, modelli scelti per rappresentare i vari concetti esplorati dalla mostra.
Ma che colpiscono soprattutto perché a vederli da vicino se ne possono osservare i dettagli, curatissimi: il taglio semplice ma elegantissimo di certi modelli, il movimento creato da certi tessuti. Dettagli che fanno venire in mente soprattutto l’enorme lavoro, creativo e materiale che c’è dietro. Lo stesso lavoro artigianale e artistico che fin dall’inizio della storia umana ha avuto come protagonista il rosso.
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