Un’epifania dolorosa è quella di chi vive l’angoscia e il dramma che agita un intero paese prima di scoprire che dentro casa c’è parte di quel male. Esattamente 46 anni fa furono trucidati a Roma in un’azione terroristica due poliziotti, il maresciallo Antonio Mea e l’appuntato Pierino Ollanu. Furono colpiti dal commando terroristico composto da 13 appartenenti alle Br che avevano deciso di attaccare la sede della Dc di piazza Nicosia, un anno dopo il rapimento e l’omicidio dello statista e leader democristiano Aldo Moro.

Nel gruppo di fuoco c’era anche Anna Laura Braghetti, nota come la carceriera di Moro, colei che uccise, l’anno dopo, Vittorio Bachelet e che mai si pentì delle sue scelte. Il racconto di quella orrenda azione sanguinaria è l’incipit de La linea del silenzio, edito da Solferino. Lo ha scritto Gianluca Peciola, politico e attivista, che di Braghetti, ha rivelato quando il volume è stato pubblicato, è fratello da parte di padre. 

Il libro è senza retorica, denso di dettagli, ricami di quei tempi, il privato e il pubblico si mischiano, l’angoscia collettiva diventa macigno familiare quando un ragazzino capisce che sua cugina, solo dopo la scoprirà sorella, è tra le artefici di quelle immagini che in tv raccontavano un’Italia in ginocchio. Un risveglio di rifiuto e abbandono, stretto in mezzo tra due vite, chi aveva conosciuto negli anni dell’infanzia, delle coccole e dei giochi, e chi aveva visto sparire fuori dal cancello di casa prima di ritrovarla in un supercarcere del nord. Scoperto il mistero della sparizione, le immagini prendono forma, i ricordi vaghi si addensano nitidi come quella volta quando in auto spuntava «una striscia di ferro argentata» dalla sua borsa, dalla borsa di Laura. Era la sua pistola. Così quel ricordo archiviato torna utile per ricomporre il puzzle alla scoperta di quella scelta, di sangue e Br. 

«C’è stato un tempo, Gianluca e io lo abbiamo attraversato, in cui le storie personali erano coinvolte e sconvolte dalla Storia maggiore. Si apparteneva all’epoca, ci schieravamo, la guardavamo in faccia. Oggi respingiamo il titolo di piombo a quei decenni», scrive Erri De Luca nel prologo del libro. Un volume che è anche un incrocio di angolature, quella pubblica, quella della familiare che aveva scelto la via del terrore e quella dell’autore. Un viaggio che esplora, scopre e svela tra album di famiglia mai aperti e verità tardive oltre che amare. Parla di una sorella e della riscoperta di un padre. 

Il libro è una scelta, quella di rivelarsi, di attraversare il conflitto anche interiore attraverso il racconto, una scelta voluta e che ha trovato nel ricordo sentito di quella strage un abbrivio. L’abbrivio a un tavolino di un ristorante romano. 

Tratto dal libro La linea del Silenzio, Solferino. 

Si chiama Carlo il cameriere che un giorno, al ristorante vicino al Campidoglio, mi propose di dedicare una via ai morti della strage dei poliziotti del maggio 1979. Si avvicinò, imbarazzato, la fronte lucida di sudore; si piegò il giusto per arrivare all’altezza del mio orecchio e soffiare: «Consigliere, mi scusi, lei conosce la storia dell’attentato delle Brigate Rosse a piazza Nicosia?».

La conoscevo bene, o almeno abbastanza bene, quella storia. Ai tempi dell’università i più estremisti tra noi del movimento studentesco, quando si riaffacciava l’ombra di quegli anni, a latere di qualche riunione o perché ci capitava di imbatterci nella notizia dell’anniversario, ne parlavano come di una eccellenza militare. Erano pochi ormai, in quel periodo a voler fare scelte di vita così radicali, mentre molti di più erano quelli che chiamavamo «i tifosi». Quelli che sostenevano le rivoluzioni degli altri. Poi avevo trovato qualcosa su alcuni libri e articoli di giornale e non dico certo che fossi diventato un esperto, ma anche all’epoca dei fatti ci fu un notevole clamore e, in seguito, in diverse trasmissioni quell’attentato così cruento veniva raccontato con una certa frequenza quando si parlava di «anni di piombo». Carlo pensava soltanto al suo amico e collega Pierino Ollanu, morto nell’attentato. Perché, prima di fare il cameriere, mi disse, era stato agente di polizia e amico di quel ragazzo che aveva appena venticinque anni quando insieme ai suoi colleghi, dentro un’auto di servizio, si precipitò in piazza Nicosia, dove era in corso l’azione del gruppo armato presso la sede regionale della Democrazia cristiana. Insieme all’amico di Carlo c’erano gli agenti Antonio Mea, di trentaquattro anni, e Vincenzo Ammarata, di ventiquattro. Arrivati sul posto e subito crivellati di colpi. Non potevano sapere che il gruppo si era diviso e una parte era rimasta in copertura dell’azione fuori dall’edificio.

Le Brigate Rosse volevano compiere un’azione dimostrativa e avevano sequestrato il personale, piazzato cariche esplosive, scritto sui muri «trasformare la truffa elettorale in guerra di classe». Era il 3 maggio 1979, a breve ci sarebbero state le elezioni politiche. Rimasero dentro troppo tempo, come loro stessi ammisero durante il processo; qualcuno all’interno era riuscito a dare l’allarme. Ollanu e Mea persero la vita, raggiunti dai col- pi dei mitra che li stavano aspettando. Spararono sicuramente l’M12 che una ragazza teneva nascosto sotto la mantellina e il kalashnikov di Francesco Piccioni. Il mitra di lei, a un certo punto, si inceppò. Valerio Morucci, un dirigente storico delle BR, le disse che succede, con quelle armi, che bisogna mettere soltanto quaranta col- pi nel caricatore, anche se ne può contenere quarantuno. La ragazza non lo sapeva ancora: fu soltanto dopo che Morucci le spiegò i limiti e le potenzialità di quell’arma. L’ultimo colpo rischia sempre di farla inceppare, le disse. Quello che conta è che la pioggia di fuoco sulla Giu- lietta fu sufficiente a uccidere due persone, ferirne una terza e permettere ai brigatisti di finire l’azione senza che nessuno di loro venisse colpito. Se ne andarono: in tredici erano arrivati, in tredici tornarono alle loro basi.

Prima di pagare il conto e salutarlo, assicurai a Carlo il mio impegno per l’intitolazione della strada al suo amico. Ma avrei voluto svelarmi, smettere quella com- posta e distaccata messa in scena, raccontargli cosa mi aveva provocato quella sua richiesta. Ricambiare quella generosa consegna di sofferente intimità con la mia verità, altrettanto sofferente e intima, ma indicibile.

Non lo feci. Perché la ragazza con la mantellina nepalese sotto la quale era nascosto il mitra M-12 che ha sparato a quei ragazzi, la conosco. È Laura.

Di fronte alla richiesta di Carlo mi sentii esposto a un sentimento noto, che di solito si affaccia quando qualcuno o qualche avvenimento esterno apre una finestra sulle scene di violenza e di morti degli anni Settanta; un misto di vergogna e senso di colpa, unito alla paranoia di essere visto, riconosciuto nella verità di essere parte di qualcosa di sbagliato, compagno di strada di chi aveva scelto la parte del male.

Nella mia cerchia parentale stretta qualcuno aveva deciso di sfidare ai massimi livelli lo Stato, arrischiandosi a prendere le armi e sparare e uccidere.

Di fronte a quella richiesta tornò a bussarmi quel sentimento, di quando, alle medie, le Brigate Rosse facevano qualche azione e in classe la professoressa decideva di parlarne, di celebrare le «vittime del terrore».

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