Era un sogno dell'800, diventato realtà nel '900. Ma la sua storia non può prescindere dai primi tentativi che, pur non portando a risultati apprezzabili, aprirono la strada al prodotto futuro. Dalle prime produzioni con succo d'uva non fermentato fino a tecniche più raffinate, dalla pastorizzazione a bassa temperatura e alta pressione di Carl Jung in Germania all'osmosi inversa creata in Australia negli anni '80, fino ai metodi odierni
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani, sullo sfogliatore online e in edicola
Non c’è dubbio, la rivoluzione tecnologica sta riscrivendo il processo produttivo e le valenze culturali di cibi profondamente radicati nella dieta degli esseri umani. Basti pensare all’hamburger coltivato, che separa la carne dalla pratica di uccidere gli animali, o alle colture idroponiche, che consentono di crescere frutta e verdura senza quello che era da sempre l’elemento base dell’agricoltura, la terra.
Allargando il discorso alle bevande, è quello che sta accadendo con il vino senza alcol, senza cioè quella caratteristica che ha reso il vino un prodotto non solo appetibile, ma anche simbolico e persino mitico (Bacco non è pensabile in versione dealcolata). Guardando la questione più da vicino, comunque, ci si accorge che, almeno per il vino dealcolato, la storia è più lunga di quanto si possa immaginare.
Il succo dei metodisti
Certo, rispetto alla lunga marcia del vino, la strada fatta dal dealcolato è sicuramente molto breve. La produzione di vino risale infatti a circa 8.000 anni fa, mentre il primo vino senza alcol è della metà dell’Ottocento. Tutto cominciò dalla religione, come per i corn flakes e altri cibi odierni molto popolari. Thomas Bramwell Welch era ministro della chiesa metodista americana ma, particolare molto importante, anche esperto di fisica (e dentista). Nel 1869 lo scienziato-religioso riuscì a pastorizzare il succo d’uva bloccandone la fermentazione.
Da quel momento girò molte chiese metodiste offrendo il Dr Welch’s Unfermented Wine, perfetto per le celebrazioni liturgiche: era vino ma evitava i possibili effetti collaterali del prodotto originale. Fu un successo enorme, persino inaspettato.
Da un punto di vista chimico, non era ancora vino dealcolato, piuttosto succo d’uva non fermentato. Ma, visto il successo, la sua diffusione fu allargata al pubblico di massa. Il prodotto divenne così Welch’s, The National Drink, e in una pubblicità del 1925 (reperibile ancora oggi in rete) venne promosso come succo d’uva da bere anche a colazione, magari con l’aggiunta di acqua o limone.
Partire dal vino
Se negli Usa venne impedito al succo d’uva di fermentare e quindi di creare alcol, fu in Europa che si decise di partire dal vino, cioè da uno stadio in cui l’uva era già fermentata e aveva quindi creato l’alcol. Fu infatti in Germania, nella seconda metà dell’Ottocento, che qualcuno capì per primo come eliminare l’alcol dal vino. La produttrice di Riesling Maria Jung era alla ricerca di un nuovo prodotto pensato specificatamente per quel target che del suo vino proprio non voleva saperne. Si trattava di persone che non bevevano per motivi di salute o di religione. Jung cominciò a lavorare all’idea di un vino dealcolato, ma ai suoi tempi la tecnologia consentiva solo tentativi pionieristici e successi parziali.
Fu però suo figlio a ottenere per la prima volta quello che sembrava impensabile. Carl Jung capì in sostanza che il segreto non era nella chimica (trovare sostanze che potessero eliminare l’alcol), ma nella fisica, e più esattamente nella pressione. Jung si accorse che in un ambiente con una pressione estremamente bassa, l’alcol evaporava a circa 35°C, una temperature ben più bassa dei 100 gradi dell’acqua. Questo significava che, pastorizzando a 35°C, l’alcol andava via, e il vino non bolliva e non diventava imbevibile.
E così nel 1908 fu creato il primo vino a cui era stato tolto l’alcol. Le intenzioni erano ottime: come si legge nel brevetto, Jung pensava a un prodotto che avesse la natura, l’aspetto, il sapore, l’aroma inconfondibile e persino il piacere conviviale tipici del vino, senza l’effetto eccitante dell’alcol. Ma chiaramente, anche se ottenuto a soli 35°C, il procedimento insieme all’alcol eliminava anche buona parte del sapore (provate voi oggi a portare un bianco o un rosso a quella temperatura e poi assaggiatelo).
Ma l’importanza del prodotto di Jung risiedeva tutta nel marketing: il suo successo (fu venduto in 25 paesi) indicò infatti a produttori e imprenditori che c’era un target interessato al vino senza alcol. E, come sempre accade quando si individua un pubblico numeroso interessato a qualcosa, da quel momento si cominciò a investire e quindi a migliorare la qualità del prodotto finito.
Le tecniche
Non a caso quella di Carl Jung è una delle tre tecniche usate ancora oggi per dealcolare il vino, ma chiaramente da un procedimento più rozzo, che snaturava il gusto del prodotto originale, si è passati man mano a tecniche sempre più efficienti che prima di ogni cosa consentono di non disperdere aroma e profumo originali.
In Italia l’idea del dealcolato piacque molto non per motivi salutistici ma per bieche ragioni economiche. Nel nostro paese infatti si produceva una quantità enorme di vino, che restava a volte invenduto. Allargare il target poteva quindi servire a migliorare il business.
Nel 1975 l’enologo Alberto Bertuzzi pubblicò sul Corriere vinicolo l’articolo “Un vino per gli astemi”, dove in pratica consigliava di fare con il vino quello che si era fatto con il caffè decaffeinato e le sigarette denicotizzate. E così l’idea di un vino senza alcol cominciò ad aggirarsi per l’Italia, anche se i soliti puristi lo consideravano buono solo per gente un po’ strana, se non per i malati.
Il secondo metodo è nato invece in Australia negli anni Ottanta, ed è quello dell’osmosi inversa. Per la verità il chimico Andrew Craig, che l’ha inventato, pensava a tutto tranne che al vino quando è riuscito a catturare i profumi e gli aromi di un liquido attraverso l’uso di filtri che eliminavano alcune componenti del vino, tra cui l’alcol. È stato il pubblicitario Tony Dann a capire che questa tecnica poteva servire a dealcolare il vino in maniera da salvaguardarne il gusto meglio che con il metodo di Jung, e quindi a farne un successo commerciale.
Dann ha concepito un sistema che prima applicava al vino l’osmosi inversa e in seguito prendeva tutte le sostanze che erano state separate dal vino e le distillava, facendo andar via l’alcol e riunendo gli altri elementi al vino trattato. Fiutando l’affare, Dann ha aperto impianti prima in California, poi in Spagna e infine in Sudafrica, tutti luoghi dove si produceva vino in abbondanza. La nuova tecnica ha avuto successo, contribuendo a diffondere ulteriormente il dealcolato.
E si arriva così al terzo procedimento, quello delle colonne a coni rotanti. Passando all’interno di questi coni, il vino si scinde a causa della loro velocità. La parte liquida va giù, e l’alcol, più leggero, resta nella parte superiore e viene catturato.
I coni di strippaggio, variazione sul tema, utilizzano invece il vapore per favorire lo stesso processo. Un ulteriore sviluppo dell’osmosi inversa è costituita invece dal metodo dei filtri a membrana, che utilizzano appunto delle membrane per lasciar passare alcune componenti e trattenerne altre, separando di fatto l’alcol dal resto.
La storia di questi ultimi metodi è comunque brevissima, di fatto si tratta di tecniche in fase di sperimentazione, tutte tendenti o a costare di meno, e favorire quindi un prezzo migliore sullo scaffale, o a non riscaldare il vino, facendogli conservare così gusto e aroma.
La sfida italiana
Nel 2012, infine, il dealcolato è arrivato anche in Italia, grazie alla Princess di Michele Tait. Una bella sfida in un paese che considera il vino (e il cibo) come qualcosa di puro, persino di spirituale, e che vede nella tecnologia un nemico che minaccia questa purezza.
Il vino di Tait, per la verità, all’inizio aveva ancora un residuo di alcol, ma nel giro di un anno o poco più è diventato totalmente alcol-free, grazie alla pastorizzazione a caldo. Un’altra azienda italiana, My Alcol Zero, utilizza invece l’osmosi inversa.
Insomma, siamo ancora all’epoca dei pionieri, ma anche da noi diventa sempre più frequente trovare vino senza alcol nei negozi o sui menù dei ristoranti. Leggendo sull’etichetta una data di scadenza (di solito 18-24 mesi), molti si dicono sorpresi o scandalizzati, ma sono le consuete reazioni alle novità di chi ama conservare il passato. Tutti gli altri, intanto, brindano al piacere sobrio del dealcolato.
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