L’8 e 9 giugno gli italiani decideranno se semplificare il percorso verso la cittadinanza per chi vive stabilmente nel paese. Uno dei quesiti referendari nelle urne prevede la proposta di abrogazione della norma che impone 10 anni di residenza continuativa, riducendola a 5.

Secondo il comitato promotore per il Sì al referendum, questa modifica alla legge 91 del 1992 coinvolgerebbe 2,5 milioni di persone che lavorano, studiano e crescono in Italia senza il giusto riconoscimento giuridico.

La storia di aurora jacob

«Non mi sento solo profondamente italiana, ma proprio romana. Romana nel cuore. È il paese in cui voglio stare, il paese che voglio cambiare».

Aurora Iacob, 21 anni, attivista della Rete degli Studenti Medi, è nata a Roma da genitori rumeni. Racconta così il paradosso di una vita intera in Italia svanita per un cavillo: un temporaneo rientro in Romania ha azzerato i suoi 18 anni di residenza continuativa, costringendola a ricominciare il percorso da zero: «Ho dovuto ricominciare tutto l’iter burocratico da capo», racconta con amarezza. «Sembra che la cittadinanza sia qualcosa che ci dobbiamo meritare, quando noi non dobbiamo dimostrare niente a nessuno». 

La sua storia si intreccia a quella di oltre un milione di minori stranieri residenti in Italia, di cui l’80% nato in Italia, che ogni anno devono dimostrare l’impossibile. Circa 14mila tra loro ce la fanno.

La storia di Nedzad husovic

Nedzad Husovic è cresciuto a Centocelle, quartiere del quadrante est di Roma. Nato nella Capitale da padre bosniaco e madre apolide, Husovic ha dovuto sempre combattere con una burocrazia che non lo riconosceva fino in fondo come italiano.

Ricorda il momento in cui, durante la pratica per la richiesta d’asilo politico, un funzionario della questura gli chiese: «Vi serve un traduttore?». La sua risposta in romanesco da borgata non si è fatta attendere: «Ma che traduttore? Semo romani!». Un episodio simbolo di un sistema che misura l’appartenenza con moduli cartacei anziché con la vita reale.

Stefania N’Kombo José Teresa e Daniela Ionita

La stessa sensazione di frattura pervade la storia di Stefania N’Kombo José Teresa, attivista per le associazioni Lunaria e Questaèroma, che oggi ha acquisito la cittadinanza italiana ma vive con il pensiero che lo stesso diritto è stato negato ai suoi genitori: «È triste. Io posso viaggiare, loro no».

È Daniela Ionita, presidenta del movimento Italiani senza cittadinanza, a cucire insieme i fili di queste esistenze sospese. Con la pazienza di chi ha combattuto diciassette anni per il proprio riconoscimento (ottenendo il documento solo a fine 2023), smonta la narrazione tossica del merito.

Il suo discorso si fa più intenso quando sposta il focus dal piano identitario a quello concreto: «Quando parliamo di cittadinanza non dobbiamo pensare solo all’identità, ma anche e soprattutto ai diritti. Ossia a quei servizi che permettono una vita migliore, non dover continuare per decenni a fare la fila interminabile in questure decadenti». Sa che la cittadinanza non è un premio da meritarsi, ma un diritto da riconoscere.

Dal 2006, ben 12 riforme della legge 91/1992 sono state proposte, tutte “morte” in Parlamento. L’ultima nel 2021, bloccata al Senato dopo 898 giorni.

Mentre i politici discutevano, 50mila ragazzi diventavano maggiorenni senza diritti.

Ecco perché l’appuntamento dell’8 e 9 giugno assume il peso di un giudizio storico. I dati del dossier Idos confermano l’urgenza: la proposta di riforma aprirebbe le porte a 1,4 milioni di persone, ma ne lascerebbe fuori 700.000 per i requisiti reddituali, un controsenso in un paese dove il 27% dei lavoratori stranieri è in nero.

Per Aurora, Nedzad, Stefania, Daniela e migliaia di altri, quel voto non è un adempimento burocratico. È un “benvenuto a casa” che l’Italia rimanda da troppo tempo.

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