Nel giorno in cui un corteo partecipatissimo diventa la cartina tornasole dei sentimenti degli italiani, suffragati peraltro anche dai sondaggi, rammarica constatare che sono i leader politici a rimanere ostaggio di vecchie logiche superate dagli eventi, da volgari interessi di bottega. Da che parte è il nostro governo?
La cosa davvero incomprensibile è come si potesse dubitare delle buone ragioni di una manifestazione come quella per Gaza. È come non si potesse immaginare che tutti i partiti, tutti, potessero sfilare insieme sotto le stesse bandiere e con gli stessi valori. Perché qui siamo veramente al minimo comune denominatore delle regole condivise per essere società, per essere comunità. Una democrazia non massacra i civili, quello è lavoro per terroristi; una democrazia non affama una popolazione; una democrazia non fa pulizia etnica. Almeno sulle risposte a queste domande si può essere d’accordo, o no?
Questo ha voluto dire il popolo del 7 giugno, esattamente venti mesi dopo il 7 ottobre. Se il 7 ottobre è stato un grumo di Shoah universalmente condannato, venti mesi di rappresaglia, di decine e decine di migliaia di morti con tutto quello che ne è stato il corollario, sono l’eccesso iperbolico davanti al quale non reagire significa connivenza con il massacro. Né può valere la logica per cui siccome c’è stato il 7 ottobre ad Israele tutto è perdonato: valesse, ci saremmo persi un bel pezzo del cammino fatto sulla strada dei diritti universali dell’uomo.
Per Gaza
C’erano trecentomila persone in piazza, nella bella piazza San Giovanni. Rappresentavano un popolo della sinistra storicamente propenso a dividersi in mille distinguo sostanzialmente inutili e non per caso invece uniti, persino nelle loro componenti più divergenti, dietro uno slogan così semplice da apparire banale, quando in realtà è la semplicità per la quale non c’è altro da aggiungere: “Per Gaza”. Come una dedica.
E proprio quella dizione, se si vuole persino così neutra, poteva essere il contenitore largo dove far confluire non una parte ma l’intera gamma degli italiani seppur con i distinguo del caso. Perché certi valori dovrebbero essere un collante unitario a prescindere, a destra, a sinistra, al centro. Semplicemente essere “per Gaza” che ovviamente non significa essere “per Hamas”, nella generalizzazione utile soltanto a giustificare la carneficina. Tutti sarebbero grigi nella notte della ragione, bambini donne, vecchi, nell’inaccettabile equazione proposta persino da qualche ministro del governo di Benjamin Netanyahu.
Nel giorno in cui un corteo partecipatissimo diventa la cartina tornasole dei sentimenti degli italiani, suffragati peraltro anche dai sondaggi, il rammarico semmai è nel constatare che sono i leader politici a rimanere ostaggio di vecchie logiche superate dagli eventi, da volgari interessi di bottega, e criticate persino dai loro stessi elettori.
Non si capisce, ad esempio, come Giorgia Meloni insista nello stare a metà del guado, tra il rafforzamento di qualche critica e l’indisponibilità a prendere misure più drastiche, il riconoscimento dello stato di Palestina, come già fatto da alcuni paesi europei mentre altri ci stanno arrivando (la Francia), la convocazione dell’ambasciatore d’Israele. O Matteo Salvini che, scavalcando i suoi colleghi preposti, aveva garantito personalmente l’immunità a Netanyahu se fosse venuto in Italia nonostante il mandato d’arresto del tribunale internazionale per i reati orrendi che sappiamo.
O lo stesso ministro degli Esteri Antonio Tajani che non riesce ad andare oltre la ripetizione stantia della formula dei «due popoli per due stati» (magari!) senza spiegare come arrivarci ma soprattutto senza la condanna di coloro (Israele) che stanno facendo ogni cosa per impedire il progetto con la pulizia etnica a Gaza e la sostanziale annessione della Cisgiordania.
L’alibi
C’è un alibi, ormai veramente trito, dietro il quale si sta cercando di nascondere la mancanza di unità. E sarebbe il supposto antisemitismo che si cela dietro la condanna a Israele. L’antisemitismo esiste almeno da quando esiste la modernità, combatterlo è un dovere. Ma se si è dilatato la colpa grave va attribuita alla politica del governo israeliano, al suo ritenersi sciolto da qualunque responsabilità per via della sofferenza storica.
Ci sarebbe poi l’altro alibi un po’ più flebile. L’indisponibilità a chiamare genocidio quanto sta accadendo a Gaza. Ma davvero basta una disputa sulla definizione a far perdere il senso dell’enormità di quanto sta accadendo? Chiamatelo come volete, ma condannatelo. E chiedete al nostro governo di dire chiaro e tondo da che parte sta l’Italia. Da quale sta la sinistra è stato gridato chiaro e forte ieri a Roma.
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