Scegliere di rimanere a casa è un’azione libera. Cosa ben diversa è, invece, indurre l’elettore a disertare le urne. Per le cariche dello stato, è la violazione di una regola di correttezza costituzionale: chi rappresenta il popolo deve servirlo, non certo asservirlo
Sull’astensione dal voto per i referendum dell’8 e 9 giugno, la confusione regna sovrana. Vi hanno contribuito tanti: il governo, le opposizioni, gli esperti. La stessa stampa prende fischi per fiaschi. Proviamo a fare chiarezza.
La Costituente volle il quorum non solo perché diffidava della democrazia referendaria, ma anche perché voleva impedire che una minoranza (relativa) di cittadini potesse abrogare una legge votata da una maggioranza (relativa) di parlamentari. Dopo la dittatura fascista, in cui il voto era stato abolito, stabilire il quorum serviva per invitare a votare in massa, non certo per legittimare l’astensione dal voto. Sarebbe stato un insulto alla democrazia, per cui donne e uomini avevano sacrificato la vita.
Per favorire la più ampia partecipazione, i costituenti discussero se introdurre il “voto obbligatorio”. I democristiani lo sostenevano per ragioni di bottega: così avrebbero costretto le classi medie (la propria base elettorale), normalmente meno attive, a recarsi alle urne. I comunisti erano contrari, per motivi opposti: senza l’obbligatorietà del voto, la classe operaia, più propensa a votare, avrebbe prevalso sulla borghesia. Non se ne fece nulla. Rimase la regola che votare è un diritto di libertà e anche un “dovere civico”: significa che ciascuno è libero di scegliere se recarsi o meno alle urne, ma farlo è espressione di un dovere di solidarietà politica (art. 2) imposto per il fatto che la nostra è una “Repubblica democratica”, fondata sulla partecipazione, e non sull’astensione.
Astensione e diserzione
È falso dire che la previsione del quorum per la validità dei referendum renda legittima l’astensione dal voto. Distinguiamo: scegliere di rimanere a casa è un’azione libera (non l’esercizio di un “diritto”, che non c’è nella Costituzione); cosa ben diversa è, invece, indurre l’elettore a disertare le urne. Nel primo caso è il cittadino che sceglie cosa fare, nel secondo no, perché la decisione di non votare gli è imposta da altri.
Nel nostro diritto c’è una regola, dimenticata, che punisce penalmente proprio chi, «investito di un pubblico potere» e «abusando delle proprie funzioni e nell’esercizio di esse», si prodiga per «indurre l’elettore all’astensione» (art. 98 delle leggi per l’elezione della Camera, applicabile ai referendum). Norma rimasta sulla carta, certo, solo raramente applicata. Il senso è chiaro: indurre a non votare e, addirittura, organizzare l’astensione dal voto da parte di organi politici vìola il diritto, dando luogo ad un comportamento illegittimo.
Non può essere una scusante l’argomento per cui «così fan tutti», ex presidenti della Repubblica (Ciampi, Napolitano), premier (Craxi, Berlusconi, Renzi), ministri (Mattarella, Tajani), alte cariche (La Russa), leader referendari (pure Marco Pannella).
Chi induce all’astensione, lo fa per una precisa scelta politica: affossare il referendum, impedendo, attraverso il mancato quorum, che gli elettori possano decidere. Per le cariche dello stato, è la violazione di una regola di correttezza costituzionale: chi rappresenta il popolo deve servirlo, non certo asservirlo.
Organizzare l’astensione, del resto, è la scorciatoia che ha fatto fallire tutti i referendum dal 1997 (salvo il caso eccezionale dei quesiti su nucleare, acqua e legittimo impedimento, nei quali il quorum fu superato grazie alla spinta emotiva dell’incidente nucleare di Fukushima). Chi vuole opporsi a un referendum, senza sabotare la consultazione, può votare “no” o consegnare una “scheda bianca” (astensione nel voto).
Commedia delle parti
Stavolta abbiamo toccato il fondo: la presidente Meloni ha detto che andrà a votare ma non ritirerà le schede. Una classica “truffa delle etichette”: il suo gesto simbolico equivale all’astensione dal voto. Anche le opposizioni non sono state da meno: dando per scontato che il quorum non ci sarà, hanno inventato lo stratagemma di contare comunque i “sì”, sperando di superare i voti ottenuti dalla maggioranza nel 2022, quando conquistò il governo. Così, però, gli stessi promotori hanno legittimato l’astensione organizzata dalla maggioranza che, accettando la sfida, vuole impedire all’opposizione di raggiungere quel risultato, spingendo gli elettori a restare a casa. Una commedia delle parti.
La verità è che il referendum disturba il manovratore, meglio farlo fallire, per poter interpretare a proprio piacimento quella disfatta. A perderne è la democrazia. Alle politiche del 2022 ha votato il 65 per cento dei cittadini, alle europee meno del 50 per cento, nei referendum del 2022 il 20 per cento. Tutti si lamentano, molti continuano a legittimare l’astensione dal voto.
Non si può rimanere indifferenti, non dovrebbero farlo le istituzioni (bene ha fatto Sergio Mattarella, da presidente della Repubblica, a stigmatizzare l’astensionismo!), neppure gli opinionisti e i costituzionalisti (se liberi e indipendenti). La democrazia è partecipazione: impedirne lo svolgimento, in tutte le forme, specie da parte di chi ha responsabilità politiche e doveri di correttezza, equivale a imboccare la strada dell’autocrazia.
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