È forse quello più laterale, la Cenerentola dei referendum sul mercato del lavoro: complementare al primo ma anche di minor impatto, quindi meno politicizzato e ai margini del dibattito pubblico. Tra i cinque quesiti referendari su cui gli italiani sono chiamati a esprimersi l’8 e il 9 giugno, uno riguarda le regole sui licenziamenti nelle piccole imprese, con l’obiettivo di lasciare ai giudici maggiore libertà nel decidere i risarcimenti per i lavoratori.

Un tema per nulla marginale se si considera che il tessuto imprenditoriale italiano è costituito in larga misura da piccole imprese, in cui lavorano circa 3,7 milioni di persone: secondo l’Istat, le realtà produttive fino a 9 addetti costituiscono più del 90 per cento delle aziende e occupano poco meno della metà della forza lavoro. Ma cosa propone di preciso questo quesito e cosa cambierebbe con la vittoria del sì (e ovviamente il raggiungimento del quorum)? Quali sono gli argomenti a favore e quali quelli contro?

Cosa prevede il testo

Il secondo quesito, su scheda arancione, chiede la parziale abrogazione dell’articolo 8 della legge 604 del 1966, come sostituito dall’articolo 2 della legge 108 del 1990: il referendum vuole eliminare il limite massimo del risarcimento previsto, in caso di licenziamento illegittimo, nelle aziende con meno di 16 dipendenti. In caso di vittoria del sì sarebbe il magistrato a stabilire l’indennizzo, anche oltre il tetto di 6 mensilità previsto oggi. Il limite minimo resterebbe invece fissato a 2,5 mensilità dell’ultima retribuzione.

Attualmente, nel caso di imprese con più di 15 dipendenti, l’indennità può salire fino a 10 mensilità se il lavoratore ha oltre dieci anni di anzianità e a 14 mensilità se ha più di vent’anni di anzianità. Il referendum cancellerebbe pure questi tetti. Non cambierebbe invece la natura della tutela. Resterebbe comunque il solo risarcimento monetario: la reintegra nel posto di lavoro è prevista quando la risoluzione del rapporto avviene per motivi discriminatori, ad esempio per l’orientamento sessuale, il credo religioso o l’appartenenza a un sindacato.

Si schiera la politica

I referendum sul lavoro sono stati promossi dalla Cgil, con il sostegno di varie realtà della società civile e di alcune forze politiche. Sul secondo quesito le posizioni dei partiti ricalcano quelle espresse sui quesiti legati al Jobs act. Tra i favorevoli ci sono Partito democratico, Movimento 5 stelle (che lascia libertà di voto sul referendum sulla cittadinanza) e Alleanza verdi sinistra. Elly Schlein sostiene il sì ai cinque quesiti, ma nel Pd non mancano malumori dall’ala riformista: alcuni esponenti di Energia popolare, la corrente che fa capo al presidente Stefano Bonaccini, non ritireranno la scheda del secondo quesito.

I partiti che sostengono il governo puntano sull’astensione, scommettendo sul mancato raggiungimento del quorum. Un obiettivo per cui si spende anche il presidente del Senato Ignazio La Russa, che sta facendo «propaganda perché la gente resti a casa». Per Fratelli d’Italia non votare è un modo per esprimere dissenso verso un’iniziativa promossa dalla sinistra e quindi considerata di parte. Sulla stessa linea è anche Forza Italia, con in testa il segretario Antonio Tajani.

Sui referendum sul lavoro fanno invece campagna per il no i partiti centristi. Sul secondo quesito si sono espressi contro Azione e +Europa (principale promotore del referendum sulla cittadinanza). Più sfumata è la posizione di Italia viva. L’ex premier Matteo Renzi ha definito i referendum «il simbolo di una guerra ideologica», sostenendo che non risolvono la precarietà lavorativa. Ma sui risarcimenti nelle piccole imprese Iv si posiziona sul «no con libertà di voto»: del resto il secondo quesito, come quello sulla sicurezza negli appalti, non riguarda direttamente il Jobs act renziano.

Le ragioni del sì

I favorevoli ritengono che il secondo quesito rafforzi i diritti dei lavoratori e garantisca maggiori tutele contro gli abusi. «Il tetto di 6 mensilità, che considerando il livello dei salari implica risarcimenti irrisori, con cifre di poco superiori ai 7mila euro, tiene i dipendenti delle piccole imprese in uno stato di forte soggezione. In questo contesto, alzare il limite massimo può essere un deterrente ai licenziamenti illegittimi», dice a Domani Lara Ghiglione, segretaria confederale della Cgil.

Più nello specifico, il vantaggio per i lavoratori delle piccole imprese sarebbe di avere un’indennità più consistente fissata di volta in volta dal giudice presso cui si intenta la causa di lavoro. Con la possibilità di analizzare il singolo caso e tenere conto di parametri come l’età del lavoratore, i carichi familiari e la capacità economica dell’azienda. «Non è detto che una piccola impresa abbia un piccolo fatturato, come dimostrano le realtà del settore hi-tech: basti pensare che Instagram aveva 13 dipendenti quando è stata acquisita da Facebook per un miliardo di dollari», aggiunge Ghiglione.

Le risponde Luigi Marattin, già in Italia viva e fondatore con Andrea Marcucci del Partito liberaldemocratico (Pld): «Ho stima dei giudici del lavoro, ma alcuni di loro non hanno mai visto un bilancio. È rischioso affidare la valutazione del risarcimento a un giuslavorista, che magari non si intende di economia aziendale. Può essere che decida un indennizzo giusto ma solitamente non accade, perché è difficile quantificare in modo preciso il danno causato da un licenziamento».

A favore dell’eliminazione del tetto è anche Franco Scarpelli, professore di Diritto del lavoro all’Università di Milano-Bicocca: «La Corte costituzionale ha segnalato che il concetto di impresa minore è mutato, che va valutata anche la dimensione economica e che non è più ragionevole un tetto di 6 mensilità», ha scritto in una scheda su lavoce.info. «E poi non è vero che l’indennizzo rimane senza limiti, che sono quelli civilistici della prova del danno effettivo subìto dal lavoratore licenziato senza giusta causa».

Ma l’obiettivo più ampio dei referendum, ha detto a Pagella politica Andrea Roventini, docente di Economia alla Scuola Sant’Anna di Pisa, è aumentare le tutele per i lavoratori e contribuire a rafforzarne il potere contrattuale. Su questo ribatte Marattin: «I rapporti di forza si misurano nel sistema delle relazioni industriali. Quando ci sono più occupati e l’offerta di lavoro cala, come in questa fase, cresce lo spazio di manovra per i lavoratori. Veri responsabili della loro condizione sono i sindacati, che avallano il rinnovo di contratti con salari troppo bassi».

C’è chi dice no

Chi si oppone al secondo quesito cita l’assenza di chiarezza sugli effetti concreti della modifica e il rischio di rendere più instabili o imprevedibili i rapporti di lavoro. «Il referendum aumenta l’incertezza sui costi effettivi dei licenziamenti, il che è un male per tutti, lavoratori e imprese», ha sostenuto su Repubblica l’economista Tito Boeri. In particolare, per i titolari di Pmi – i cui fatturati sono spesso relativamente contenuti – un risarcimento senza un tetto prefissato potrebbe causare un danno economico considerevole.

«L’intenzione magari è buona e suona bene a un orecchio sbadato, ma nei fatti si ottiene un risultato pericoloso: senza certezze su un eventuale indennizzo le piccole realtà produttive, anche quelle con uno o due dipendenti, potrebbero essere scoraggiate dal fare assunzioni», spiega Marattin a Domani. «È un’affermazione grave che rivela la mentalità di tanti imprenditori, che mentre assumono già pensano a come sbarazzarsi dei dipendenti. In pratica si ammette che il sistema poggia sulla ricattabilità di chi lavora», rispondono dalla Cgil.

In effetti un possibile problema è che, eliminato il limite massimo, il giudice potrebbe stabilire un risarcimento molto elevato, persino più alto di quello da 24 o 36 mensilità previsto – rispettivamente dalla riforma Fornero e dal Jobs act modificato dal decreto Dignità del Conte I – per i dipendenti delle grandi aziende. Un indennizzo «potenzialmente miliardario» secondo Pietro Ichino, professore di Diritto del lavoro all’Università Statale di Milano.

«In tutto il mondo alle piccole imprese viene concessa più flessibilità nella gestione del personale, perché sono soggette a più alti rischi di fallimento; potrebbero anche non nascere, se condannate a pagare costi alti in caso di esuberi», ha scritto Boeri. «Togliere il tetto al risarcimento per le imprese minori è poi paradossale nel momento in cui, con il primo quesito, lo si riduce di un terzo per le maggiori», evidenzia invece Marattin, che punta il dito contro la mancanza di coerenza tra i quattro quesiti.

Una critica simile è arrivata dalla Cisl, secondo cui rimuovere il limite non garantirebbe indennizzi più alti ed equi. Per il sindacato guidato da Daniela Fumarola «servirebbe una riforma che aumenti sia il limite minimo che massimo, non solo l’eliminazione del tetto». Pronta la replica di Ghiglione: «Riformare il mercato del lavoro è urgente ma non è nei programmi del governo, manca la volontà politica. Quindi la nostra risposta è un referendum che dice con chiarezza sì, vogliamo abrogare una norma che penalizza i lavoratori».

Gli altri quesiti

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