«La situazione è pessima a Los Angeles, fate entrare le truppe!». E ancora: «Arrestate le persone che indossano una maschera, subito!». Sono questi i primi ordini della giornata di Donald Trump, impegnato nel dispiegamento di duemila uomini della Guardia nazionale a Los Angeles per contenere i manifestanti contro i raid anti immigrazione che le forze dell’ordine locali non riescono ad affrontare.

Il presidente li chiama «insorti», «invasori», «canaglie», «vandali» e altri epiteti che confermano il rovesciamento del mondo trumpiano, dove gli assaltatori del 6 gennaio sono ostaggi e i manifestanti sono sediziosi che costringono le autorità a dispiegare «truppe ovunque».

«Le persone che causano i problemi – ha scritto su Truth – sono agitatori professionisti e insurrezionalisti. Sono persone cattive. Abbiamo preso un’ottima decisione inviando la Guardia Nazionale. Se non l’avessimo fatto, Los Angeles sarebbe stata annientata. L’incompetente governatore Newscum e la “sindaca” Karen Bass dovrebbero dire: Grazie presidente Trump, sei meraviglioso, senza di te non saremmo nulla. Invece, scelgono di mentire al popolo della California e dell’America».

La situazione nella città californiana sta precipitando rapidamente: decine di arresti, auto della polizia incendiate, scontri violenti e proprietà danneggiate in diverse zone della metropoli. Un giornalista è stato colpito da un proiettile di gomma della polizia. La Casa Bianca sta facendo tutto ciò che è in suo potere per favorire l’escalation, non per placarla.

Trump ha dato mandato alla segretaria della Sicurezza nazionale, Kristi Noem, al segretario della Difesa, Pete Hegseth e alla procuratrice generale, Pam Bondi, di «intraprendere tutte le azioni necessarie per liberare Los Angeles dall’invasione di migranti», indicazione che equivale a dare mano libera alle figure che regolano l’uso della forza. A ben vedere, si tratta di un film già visto, di cui Trump questa volta però vuole riscrivere il finale.

Il dispiegamento di forze militari federali per sedare le manifestazioni è stato il mantra di Trump nel 2020, dopo l’assassinio di George Floyd a Minneapolis. Il presidente allora ha tentato in molti modi di autorizzare l’invio di truppe nelle città – idea promossa anche dal senatore repubblicano Tom Cotton in un articolo sul New York Times che ha provocato una serie di licenziamenti nel quotidiano – per contrastare le presunte derive anarcoidi del movimento Black Lives Matter, ma in ultima analisi i progetti di militarizzazione si sono infranti contro la resistenza degli stessi segretari e funzionari dell’amministrazione, che hanno usato la forza della legge per respingere i desideri sfrenati del presidente.

I responsabili degli apparati militari e di sicurezza nel primo mandato hanno finito per diventare i più feroci critici del presidente, che ricambia il disprezzo. Questa volta, invece, Trump si è curato di mettere in quelle posizioni pretoriani di specchiata fedeltà e gregari pronti a eseguire qualunque ordine. Questa è la notevole differenza fra la prima e la seconda stagione della repressione violenta di Trump.

Attacco al modello

Ma le ragioni per cui il presidente non può assolutamente lasciarsi sfuggire questa rivolta sono di ordine politico. La California è il modello democratico per eccellenza che già da molti anni si è trasformato nel suo opposto, passando da luogo del proverbiale sogno a incubo fatto di disuguaglianze, violenza, povertà, disordine sociale e fuga di imprese e capitali, che non certo da oggi cercano rifugio nei meno regolamentati stati repubblicani.

La California è naturalmente anche l’avanguardia del progressismo woke, che in fondo è l’unico collante che tiene insieme un mondo Maga diviso in diversi correnti altrimenti inconciliabili, come dimostra la fragorosa rottura fra Trump e Elon Musk. Per la Casa Bianca è importante riaffermare che l’establishment democratico che guida da sempre lo stato è il titolare di una gestione fallimentare che in questa fase si manifesta nella forma dei “riot”, la rivolta di strada che è una figura tipica della vita californiana.

In particolare, Trump vuole che su questo caos che impone l’intervento della guardia nazionale sia ben visibile il volto di Gavin Newsom, il governatore che lo accusa di avere creato appositamente una crisi artificiale solo per dargli battaglia. La Casa Bianca, in tutta risposta, ha evocato l’ipotesi di arrestarlo.

Trump ha eletto Newsom a suo idolo polemico di riferimento, perché in realtà lo teme. Le ambizioni nazionali del governatore sono note, ma dopo la vittoria di Trump a novembre è stato il primo fra i democratici che contano a smarcarsi dal modello woke per impostare una nuova narrazione, una specie di populismo di sinistra che vuole combattere il trumpismo sul suo stesso terreno. È un tipo di direzione che non piace al presidente.

La legge

Sui disordini violenti di Los Angeles regna anche un disordine di natura legale riguardo alla mobilitazione della Guardia nazionale. C’è infatti una certa confusione su quale legge faccia da fondamento alla proclamazione presidenziale, e perfino dalla reazione di Newsom sembra che le autorità locali abbiano frainteso la natura del provvedimento.

La decisione non invoca, infatti, l’Insurrection Act, legge che in rigorose condizioni emergenziali dà al presidente poteri d’intervento molto ampi. I legali della Casa Bianca si poggiano invece su un’antica prerogativa presidenziale nota come “potere di protezione”: in combinato disposto con la teoria dell’autorità costituzionale del presidente, questa dà il potere di mobilitare la guardia nazionale. Ma si tratta di poteri molto limitati rispetto a quelli previsti dall’Insurrection Act. Insomma, Trump sta esacerbando per ragioni politiche lo scontro in California, ma non ha ancora piegato tutte le leggi che aveva a portata di mano a servizio dei suoi scopi.

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