Un piccolo soffio ha sollevato le pagine del leggio posato sopra la bara di legno, solo alla fine, un soffio leggero simile al sussurro di brezza, l’alito dello Spirito in cui i profeti del Vecchio Testamento ascoltano la voce di Dio. Sabato mattina, alla messa esequiale del Romano Pontefice Francesco, come recita la liturgia, c’era un bellissimo sole di primavera, la dolcezza dell’addio, la benedizione finale addirittura struggente dei patriarchi delle chiese cattoliche di rito orientale, con il canto in greco che risuonava in una piazza San Pietro piena e ammutolita. «Concedi il riposo al tuo Servo defunto Francesco, in un luogo di luce e di gioia, in un luogo verdeggiante, in un luogo di beatitudine dove non sono più sofferenza, dolore e pianto... Eterna la tua memoria, fratello nostro, degno di beatitudine, indimenticabile».

Era tutto molto lontano dalla bufera che, all’improvviso, travolse la conclusione dei funerali di papa Giovanni Paolo II, venti anni fa, l’8 aprile 2005. Viste dall’alto del colonnato, le vesti rosse dei cardinali cominciarono ad ondeggiare paurosamente, quelle di Carlo Maria Martini assomigliavano a una marea, trascinate da un tornado furioso che sembrava voler spazzare via tutto. Non era soltanto un fenomeno atmosferico.

Quel coro in piazza

Il coro “Santo subito” che si era alzato dalla piazza per il papa defunto dopo ventisette anni di pontificato, prima devoto, poi quasi rabbioso, aveva circondato i futuri cardinali elettori, li aveva stretti nella tempesta di una possibile contestazione, aveva condizionato le loro scelte in vista dell’imminente conclave.

E dieci giorni dopo era stato il celebrante del funerale Joseph Ratzinger, il decano dell’epoca, a essere spinto alla successione, dopo aver denunciato, nell’omelia prima della chiusura nella Cappella Sistina davanti ai grandi elettori, il pericolo di una Chiesa «sballottata dalle onde e portata qua e là da qualsiasi vento di dottrina…».

La paura dell’oscurità, della irrilevanza, che aveva portato alla scelta del cardinale tedesco custode della fede, considerato un presidio della solidità del cattolicesimo, una diga, una garanzia. E invece, proprio lì, c’era stato il crollo. Quello personale di Ratzinger, nonostante i melliflui sostenitori allocati nei giornali, e quello di un mondo di movimenti potenti, lobby organizzate, che avevano sostenuto il pontificato di Wojtyla e poi quello di Ratzinger. La sorpresa Bergoglio, al posto dell’italiano Scola cresciuto in Comunione e liberazione, aveva segnato il cambiamento.

Non c’è stata paura

Non c’era paura, invece, nella piazza piena di sole. Nonostante il momento drammatico del mondo. Venti anni fa, nel 2005, non c’erano i droni, per riportare sui maxischermi le immagini dall’alto di via della Conciliazione e per difendere la sicurezza dei leader del mondo. Non c’erano gli smartphone e i social. Non ci furono vertici internazionali nella Basilica di San Pietro, quello tra Trump e Zelensky, a quanto pare doveva farsi dopo la messa nella sala dei Paramenti, ma Zelensky ha voluto anticipare, i due si fanno fotografare mentre parlano sulle seggioline in mezzo ai marmi, più che una trattativa pare una confessione, e poi Macron, Starmer, lo scompigliato Milei in prima fila vicino a Mattarella, la premier Meloni con il sottosegretario, il cattolicissimo Alfredo Mantovano.

I politici italiani sotto la statua ottocentesca di san Paolo, con la spada nella mano destra e il rotolo di un libro: Casini in prima fila, un cerimoniale beffardo mette uno accanto all’altro gli ex presidenti del Consiglio, Renzi vicino a Gentiloni, Conte pigiato a Draghi. Intorno, vanità di vanità ministeriali o ex-ministeriali. Dietro di loro Elly Schlein, vestita di nero, quando la bara di papa Francesco esce dalla vista ed entra in Basilica la segretaria del Pd si commuove.

Mescolati nella piazza, ancora, pezzi del mondo di papa Francesco. «Adios Padre Maestro y Poeta», scrivono i giovani di Scholas. Don Mattia Ferrari, Beppe Caccia, e Luca Casarini di Mediterranea, David Yambo di Refugees in Libya, sorella Adriana di Spin Time. Accanto a loro Geneviève Jeanningros, la piccola suora di Gesù, nipote di Léonie Duquet, una delle suore francesi rapite durante la dittatura in Argentina, sequestrata il 10 dicembre 1977, amica di giostrai, rom, transgender a Ostia, e del papa che la prendeva in giro: «Ma spiegatemi: suor Geneviève cosa fa esattamente? Doma i leoni?». Casarini, invitato speciale al Sinodo, scelto personalmente da papa Francesco, si immerge nel rosso della fila dei vescovi che lasciano il sagrato alla fine della cerimonia, li conosce tutti, li saluta, li abbraccia e bacia uno a uno.

Pastore di ricucitura

Papa Bergoglio era considerato dai nemici un uomo divisivo, e invece pastore di ricucitura. Anche in questo si è visto un clima opposto a quello in cui avvennero i funerali di papa Wojtyla.

Lo storico cattolico Pietro Scoppola scrisse che «dopo l’ossessione mediatica dei giorni della malattia», la morte in diretta dopo giorni di agonia, sentiva «un inconfessabile desiderio alternativo», «una celebrazione non concentrata tutta fisicamente in San Pietro, quasi a sottolineare che la Chiesa è realtà complessa, unita, sì, nel Papa ma non è il Papa».

E andò a messa nella sua parrocchia nel quartiere romano di Prati, dove in una chiesa deserta un giovane prete leggeva il Vangelo di Giovanni sulla moltiplicazione dei pani e dei pesci per sfamare la folla che aveva seguito Gesù. Compiuto il miracolo, «Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo nella montagna tutto solo». «Mi pare», commentò Scoppola, «che quel “tutto solo” sia lo spazio della coscienza, del rapporto interiore con il mistero di Dio, sia l´antidoto alla tentazione di trasformare una manifestazione di fede in un segno di potenza. Paradossalmente, la condizione di questo prestigio, di questa capacità di presa della Chiesa sul popolo è proprio negli spazi di quel “tutto solo” nei quali Gesù si rifugiava. Forza e debolezza nella Chiesa sono strettamente intrecciate: la Chiesa è una forza debole… La manifestazione trionfale in San Pietro è anche una grande sfida per la Chiesa di domani».

Decidere da soli

Francesco ha interpretato per dodici anni questa Chiesa del domani, nelle sue fragilità e contraddizioni. La coscienza di chi decide “tutto solo” nelle grandi sfide della sua vita, il nascere, il morire, il generare, e l’esigenza di una comunità di cui sentirsi parte, che sia ecclesiale o politica.

Due tensioni che papa Bergoglio ha tenuto insieme, senza temere le difficoltà, e che oggi rischiano di tornare a separarsi. Ben al di là della contrapposizione tra i due mondi su cui insisteranno i media. I grandi e i piccoli, i ricchi e i poveri. Il mondo di San Pietro e quello di Santa Maria Maggiore oggi, come quello del Vaticano e di Santa Marta.

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Il mondo di fuori premeva per tornare ad abbracciare il suo papa, ha invaso le strade di Roma fino alla basilica del quartiere Esquilino dove ora Bergoglio l’argentino si è fermato. Fuori c’erano i rifugiati, le persone che il papa ha aiutato in questi anni in modo diretto e personale. Il mondo di dentro, i poteri del mondo e l’apparato curiale hanno fatto fatica a riassorbirlo.

C’è stato un momento infinito, in cui è sembrato irreale quell’apparato ecclesiale affollato intorno al feretro del papa che alla Curia non aveva fatto mai mancare attacchi e critiche: il clericalismo, il carrierismo. E alla fine della liturgia è apparso al contrario naturale che le spoglie di Bergoglio uscissero ancora una volta, l’ultima, dalle mura vaticane, a bordo di una papamobile bianca, per essere applaudite per le strade e accolte nella basilica romana meno conosciuta.

È toccato al veterano, al decano cardinale Giovanni Battista Re, bresciano di Borno, nella Val Camonica, classe 1934, a lungo punto di riferimento nella segreteria di Stato per la politica italiana, uomo dell’unità dell’Istituzione, celebrante delle esequie, provare a ricondurre la diversità bergogliana nella tradizione bimillenaria della Chiesa. Con un’omelia abile e studiata fin nelle sfumature, divisa in due parti. La prima parte al riparo della devozione. Del defunto Re ha elogiato «gli anni di vita religiosa nella Compagnia di Gesù, i ventuno anni di ministero pastorale nell’arcidiocesi di Buenos Aires», «il temperamento e la guida pastorale», «la ricchezza di calore umano e la profonda sensibilità ai drammi odierni». Parole esposte con eloquio non certo trascinante, arrivate alla piazza con una certa distrazione, se non indifferenza, con distacco e perfino con diffidenza.

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Nella seconda parte, però, Re ha cominciato a parlare dell’eredità di Francesco. E la piazza ha finalmente battuto le mani, prima in modo timido, poi via via più convinto. Quando il cardinale bresciano ha ricordato il «Papa in mezzo alla gente con cuore aperto verso tutti», il Papa «attento al nuovo che emergeva nella società ed a quanto lo Spirito Santo suscitava nella Chiesa», l’incoraggiamento a «vivere da cristiani le sfide e le contraddizioni di questi nostri anni di cambiamenti, che amava qualificare “cambiamento di epoca”, le ansie, le sofferenze e le speranze del nostro tempo della globalizzazione», quasi citando letteralmente le prime parole della conciliare Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II di sessant’anni fa.

Gli applausi sono diventati più insistiti quando Re ha ripercorso i viaggi di Francesco a Lampedusa, Lesbo e soprattutto «la celebrazione di una Messa al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, in occasione del suo viaggio in Messico». L’evocazione esplicita del dossier più divisivo tra Vaticano e Usa, il trattamento dei migranti, sbattuto in faccia a Trump che stazionava in prima fila sul sagrato di San Pietro.

Uno sgarbo non casuale in un diplomatico di antica scuola come Re, la rivendicazione che su questo punto la Chiesa è unita, non c’è solo Bergoglio. E infine la denuncia delle guerre, in memoria del viaggio in Iraq del vecchio papa: «La guerra lascia sempre il mondo peggiore di come era precedentemente: essa è per tutti sempre una dolorosa e tragica sconfitta». La conclusione è stata sulla Chiesa ospedale da campo e sulla Chiesa in uscita, «una casa per tutti, una casa dalle porte sempre aperte» fa pensare a qualcosa di più di un semplice, benevolo congedo dal papa defunto.

Proprio perché arriva non da un bergogliano doc, ma da un cardinale sopravvissuto a epoche lontane, ma dotato di esperienza e di sensibilità politica sufficiente per capire che il cambiamento di Francesco si può ammorbidire e ordinare, si può rallentare o organizzare per coinvolgere l’apparato escluso per più di un decennio, ma non si può cancellare. Un altolà che arriva dalla voce più autorevole, fuori dal conclave per motivi di età, a chi si prepara a una piattaforma opposta, alla presentazione di candidature fondate sulla critica feroce del fallimento del papato bergogliano.

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Il saluto finale di Re riecheggia quello che Ratzinger fece a Karol Wojtyla: «Caro Papa Francesco, ora chiediamo a Te di pregare per noi e che dal cielo Tu benedica la Chiesa, benedica Roma, benedica il mondo intero, come domenica scorsa hai fatto dal balcone di questa Basilica in un ultimo abbraccio con tutto il popolo di Dio, ma idealmente anche con l’umanità che cerca la verità con cuore sincero e tiene alta la fiaccola della speranza». Non ci sono stati, in questo caso, i cori di vent’anni fa, la santificazione a furor di popolo. Ma l’evocazione della speranza, non solo per la Chiesa, ma per tutta l’umanità, vale già l’identikit del successore possibile di Bergoglio, in continuità con il papa defunto. Per «la Chiesa privata del suo Pastore, che cerca il conforto della fede e la forza della speranza», come recita l’ultima parola della liturgia, è la sfida più difficile di questo passaggio.

Per i candidati a raccogliere la sua eredità è una pietra che fa inciampare le manovre reazionarie, controriformiste. O un programma possibile, per chi vuole raccoglierne il testimone. La speranza portata nel mondo da papa Francesco «fratello nostro, degno di beatitudine, indimenticabile».

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