Serve «una pratica per eventuali profili di responsabilità del magistrato di sorveglianza che ha autorizzato il lavoro esterno» di Emanuele De Maria, che domenica ha ucciso Chamila Wijesuriya e poi si è suicidato gettandosi dal Duomo di Milano. A scriverlo al comitato di presidenza del Csm sono stati i cinque consiglieri laici del centrodestra, che chiedono un esame «sia sotto l’aspetto professionale e sia sotto quello eventualmente disciplinare» della magistrata milanese.

De Maria era detenuto a Bollate dopo una condanna definitiva a 14 anni e 3 mesi per l’omicidio di una donna tunisina nel 2016 e da due anni lavorava come receptionist in un albergo. L’uomo era stato ammesso al lavoro esterno dopo aver scontato un terzo della pena ma, come hanno scritto i laici, «la concessione è subordinata» all’approvazione del magistrato di sorveglianza.

Tuttavia, prima dell’omicidio, il suo profilo era quello di un detenuto che non aveva mai trasgredito alle regole, «dimostrando correttezza nello svolgimento dell’attività all’esterno del carcere» come precisato anche dal viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto (Forza Italia).

Per questo l’iniziativa dei laici di maggioranza ha un peso anche politico, viste le dichiarazioni del centrodestra all’indomani dei fatti. «Quei magistrati hanno sbagliato e il loro errore va sanzionato», è stato l’affondo del forzista Maurizio Gasparri. Cui ha fatto eco il sottosegretario della Giustizia, Andrea Delmastro (FdI), secondo cui «una riflessione su come sia potuto accadere che una persona che poi si è comportata così fosse stata giudicata non pericolosa socialmente va fatta».

A seguire un altro meloniano come Riccardo De Corato ha attaccato «certa magistratura buonista e di sinistra, troppo morbida nei confronti di alcuni carcerati che devono scontare le loro pene all’interno delle galere».

Il ministero della Giustizia sta approfondendo il dossier anche se servirebbe prudenza, come ha precisato (voce piuttosto isolata) Sisto: «Il ministro valuterà con attenzione atti e fatti prima di decidere se intervenire con un’ispezione. I dati che conosciamo non sono univoci» e «si tratta di un caso molto specifico».

I percorsi rieducativi

Eppure, nonostante le parole di Sisto ad analizzare il contesto, il fatto di cronaca è diventato una questione politica. E a poco sono servite le precisazioni sull’imprevedibilità di quanto accaduto. «Nulla poteva lasciare presagire l’imprevedibile e drammatico esito», hanno scritto il presidente della Corte d’appello di Milano, Giuseppe Ondei, e la presidente facente funzioni del tribunale di Sorveglianza di Milano, Anna Maria Oddone.

I giudici avevano acquisito le informazioni delle forze dell’ordine e il permesso di lavoro era stato concesso solo dopo un’istruttoria con l’amministrazione penitenziaria. A confermarlo è intervenuto anche il legale dell’uomo, che ha parlato di «relazioni completamente positive» e di «nessun segno di squilibrio» per un detenuto che stava scontando la pena in uno dei penitenziari considerati modello in Italia.

Nulla di tutto questo ridimensiona la portata tragica del femminicidio, ma nulla lo lasciava nemmeno presagire, almeno sulla base dei dati a disposizione degli operatori. Il caso però rischia di diventare il pretesto per mettere in discussione l’istituto stesso dei percorsi rieducativi, oltre che riaccendere lo scontro tra centrodestra e magistratura.

«Va valutato se, per certi tipi di reati, sia necessario un ripensamento riguardo alla possibilità di usufruire del lavoro all’esterno. Compito che spetta al parlamento, evitando scelte d’impeto», ha spiegato Sisto, perché «la vicenda non deve sminuire la necessità dei percorsi rieducativi».

Altrimenti «avremmo un rimedio peggiore del male». Del resto, numeri alla mano forniti dall’associazione Antigone, oggi sono 97mila i detenuti che stanno seguendo un percorso alternativo e meno dell’1 per cento delle misure viene revocata per la commissione di nuovi reati, mentre il 70 per cento di chi sconta tutta la pena in carcere poi torna a delinquere.

«Mettere in discussione questi strumenti per un singolo caso di cronaca è sbagliato e anche pericoloso proprio per la sicurezza», è stato il commento del presidente di Antigone, Patrizio Gonnella. Eppure il tic contro la «magistratura rossa» è scattato subito – almeno in alcuni – dentro la maggioranza.

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