Una serie di studi mostrano una correlazione positiva tra successo formativo e ottenimento dello status di cittadino da parte dei minori di origine straniera. Pregiudizi e ritardi normativi condizionano la loro vita, nonostante in questi anni la popolazione di studenti stranieri sia aumentata fino a arrivare a circa un milione
Tempo fa ascoltavo una discussione tra due studenti sul referendum sulla cittadinanza. Uno diceva che cinque anni gli sembravano pochi per ottenerla, l’altro gli rispondeva: «Ma tu quanti anni c’hai messo? Zero». Il quesito sulla cittadinanza si è rivelato quello più problematico dei cinque, si direbbe inaspettatamente. Riguarda una questione meno tecnica delle altre, e si poteva immaginare andasse incontro a una sensibilità non solo politica più diffusa. Invece l’Italia rischia di mostrarsi ancora un paese identitario se non razzista; e questo nazionalismo anche xenofobo spesso non solo non si riesce a contrastarlo a scuola, ma lo si impara sui banchi. È una tesi storica che ricostruisce bene Anna Curcio in L’Italia è un paese razzista, da poco uscito per DeriveApprodi, che individua il filo rosso di un’educazione al razzismo che passa dall’antimeridionalismo dello Stato liberale al razzismo colonialista e antigiudaico del fascismo fino all’attuale nuovo razzismo mascherato da difesa dell’identità italiana.
Chiunque abbia a che fare con la scuola sa quanto siano radicati questo genere di pregiudizi. Espérance Hakuzwimana l’anno scorso ha pubblicato per Einaudi un libro intitolato Tra i bianchi di scuola che racconta il presente e il passato prossimo delle generazioni di bambini e ex bambini stranieri entrati in classe dalla fine degli anni ottanta a oggi, nel momento in cui l’Italia si è trasformata da paese di emigrazione in paese di immigrazione. «Siamo stati “il bambino della II E adottato dalla Colombia”, “il bambino mulatto dei mezzani”, “quello rumeno con la mamma che fa la badante”, “il marocchino”, “il cinese che non vuole imparare l’italiano”, “la ragazza col velo della I M”, “le sorelline nigeriane”, “i due gemelli dell’Est”».
In questo lungo passaggio tra i due millenni la situazione della scuola non è così cambiata, nonostante la popolazione di studenti stranieri sia aumentata fino a arrivare a circa un milione di persone, l’11 per cento del totale (ultime rilevazioni dell’anno 2023). Oggi si tratta per lo più dei figli dell’immigrazione stabilizzata, oltre due terzi nati in Italia, seconde e terze generazioni.
Tra le ragioni più evidenti di questo ritardo e deficit democratico ci sono i mancati investimenti sulla mediazione culturale e sul plurilinguismo, ossia su un’inclusione seria. I mediatori culturali a scuola sono pochi, non c’è una normativa definita, i loro interventi non sono inseriti in una politica di sistema ma solo per l’emergenza, la loro figura è riconosciuta in modo più che disomogeneo a seconda delle regioni. Di fatto ci sono contesti virtuosi e esemplari (molto pochi) e classi e scuole intere dove di mediatori culturali non si vede l’ombra.
Quel lavoro di mediazione linguistica e culturale che dovrebbe essere garantita alle famiglie di stranieri non è raro che ricada interamente sugli studenti stessi, che vengono usati come “mediatori naturali”, supplenti per le relazioni con le famiglie, cosicché persino le semplici comunicazioni istituzionali passano soltanto da loro. Lo stesso vale per il plurilinguismo, visto come didattica d’avanguardia se parliamo di insegnare inglese al nido, ma come stigma se si tratta di bambini che parlano in arabo tra loro.
Prima la cittadinanza
Ma c’è un altro fattore che determina un ritardo enorme dell’inclusione e una persistenza di quel razzismo scolastico che a sua volta causa grandi disuguaglianze: le arretratissime normative sulla cittadinanza.
Abbiamo ormai una serie di studi condotti in diversi paesi non solo europei che mostrano una correlazione positiva tra successo formativo e ottenimento dello status di cittadino da parte dei minori di origine straniera.
Una ricerca del 2021 condotta non solo sui paesi europei di Christina Gathmann, Christina Vonnahme, Jongoh Kim and Anna Busse rileva che la cittadinanza porta a una diminuzione dell’abbandono scolastico, a un aumento della frequenza delle scuole superiori e al miglioramento del rendimento anche in materie chiave come la matematica. Un’altra del 2022 sempre del gruppo di Gathmann rimarca come la cittadinanza agisca da catalizzatore per l'integrazione degli immigrati, e che questo porti come effetto un incontrovertibile miglioramento delle prestazioni scolastiche. Gli studenti – e le loro famiglie – semplicemente investono di più nelle istituzioni a cui sentono di appartenere.
Per queste ragioni appare completamente fuori fuoco la prospettiva pedagogica e la proposta politica ripetuta spesso dal ministro Valditara, anche per rispondere alla questione dello ius scholae: prima l’integrazione e poi la cittadinanza. È quello che ha dichiarato per esempio qualche mese fa alla fiera Didacta a Firenze, è quello che sottende il suo intervento su Retequattro qualche giorno fa: «Noi abbiamo previsto di formare degli insegnanti specializzati nell’insegnamento dell’italiano a chi non sa dire nemmeno buongiorno e buonasera». Senza entrare nel merito di come si svolgeranno questi corsi di formazione dei docenti e se gli studenti stranieri dovranno seguire le lezioni di italiano potenziato nell’orario curricolare in aule a parte, possiamo notare come questa visione rischi di riprodurre un inefficace modello assimilazionista.
Fiorella Farinelli lo sintetizza bene in un saggio sulla rivista del Mulino dell’anno scorso sulle minoranze etniche e culturali a scuola: «Diffondere allarmi sulla perdita dell’identità culturale degli italiani è irresponsabile. Così come pensare all’integrazione come a qualcosa di immediato e banale». Estendere la cittadinanza vuol dire avere a cuore questa complessità.
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