L’autrice di Lo sfruttamento della razza - Le nuove gerarchie della segregazione spiega che le persone lavoratrici migranti sperimentano una doppia precarietà: occupate in settori dove è più frequente lo sfruttamento e il caporalato, subiscono anche il ricatto del permesso di soggiorno
Classe 1995, Oiza Q. Obasuyi è una scrittrice e attivista per i diritti umani, nonché dottoranda in Sociologia e Ricerca sociale presso l’Università di Bologna. La sua attività di ricerca si concentra sulla decostruzione del razzismo istituzionale verso le persone con background migratorio e lo studio dei movimenti antirazzisti.
Partecipa attivamente al dibattito pubblico su questioni di razzismo, identità e cittadinanza, posizionandosi come una delle voci più autorevoli della nuova generazione di attiviste e accademiche afroitaliane.
Il 23 maggio scorso è uscito in libreria il suo ultimo saggio Lo sfruttamento della razza - Le nuove gerarchie della segregazione edito da Derive Approdi.
«Sappiamo benissimo che le persone lavoratrici migranti sono coloro che appunto vivono in una condizione di precarietà addirittura superiore rispetto a quella delle persone italiane. Allo stesso tempo sono quelle che ricoprono più posizioni nei settori lavorativi maggiormente essenziali, e sono anche più esposti a pericoli quali decessi sul lavoro, precarietà e sfruttamento».
Nel suo libro lei parla di «razzializzazione del lavoro». Cosa significa questo termine che può sembrare anacronistico?
Il titolo può apparire d'impatto, ma ho voluto utilizzare il concetto di razza non nella sua accezione biologica - ormai sappiamo essere totalmente falsa - ma come costrutto sociale. Parliamo di razza come categoria politica, sociale, culturale e di oppressione. Spesso quando si parla di razza e razzismo c'è sempre quel sentirsi subito sulla difensiva, soprattutto da parte delle persone autoctone bianche, e si pensa che questi siano concetti appartenenti al passato, al periodo della tratta atlantica degli schiavi o della segregazione razziale negli Stati Uniti. In realtà, le persone razzializzate – quelle con background migratorio – subiscono ancora oggi un trattamento differente e discriminatorio rispetto alla maggioranza.
Come si manifesta concretamente questa discriminazione nel mondo del lavoro italiano?
Basta guardare i settori lavorativi maggiormente occupati dalle persone con background migratorio: sono settori dove prevale segregazione occupazionale, caporalato e sfruttamento del lavoro. È già lo Stato che decide dove incanalare queste persone, perché sappiamo bene che le competenze pregresse acquisite nel Paese di origine praticamente non valgono nulla. Ci sono tantissimi studi che lo provano: diplomi o lauree che in Italia valgono carta straccia se si proviene dal Sudan, dalla Nigeria o da altri Paesi dell'Africa subsahariana o del cosiddetto sud globale. Un medico può trovarsi a fare il bracciante. Abbiamo un contesto fortemente stigmatizzante e razzializzante che sfrutta la manodopera straniera relegandola a settori lavorativi precisi, dove spesso prevale il lavoro in nero, in una condizione di perenne subalternità, assenza di autodeterminazione e documenti negati.
La precarietà però colpisce tutti i lavoratori. Qual è la specificità della condizione delle persone migranti?
È vero, quando parliamo di lavoro oggi parliamo di precarietà molto diffusa anche tra persone bianche autoctone. Il precariato colpisce tutti. Ma quando parliamo di sfruttamento della razza vogliamo indicare che le proprie origini e provenienza sono fattori cruciali che determinano quel tipo di discriminazione. La precarietà di una persona straniera non risiede solo nel lavoro precario in sé, ma nel nesso mortale tra lavoro precario e assenza dei documenti necessari per essere in regola o per ottenere quel permesso di soggiorno così difficile da guadagnarsi per via di leggi repressive come la Bossi-Fini.
Questo nesso tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro relega le persone in un limbo fatto di irregolarità e sfruttamento. La differenza è enorme: se un lavoratore italiano perde il lavoro, rimane comunque in Italia. Se lo perde un lavoratore straniero, rischia anche il permesso di soggiorno e il rimpatrio. Ci sono sfumature di oppressione che dobbiamo analizzare quando esaminiamo le varie intersezioni.
I quesiti referendari su lavoro e cittadinanza sono davvero collegati?
Assolutamente sì. Chi dice che cittadinanza e lavoro sono completamente slegate, o chi dice «vota quattro sì e poi basta con la cittadinanza», probabilmente non si rende conto di quanto le cose siano connesse. Le persone lavoratrici migranti sono coloro che vivono in una condizione di precarietà superiore rispetto a quella delle persone italiane. Allo stesso tempo sono quelle che coprono settori lavorativi essenziali eppure più esposti a pericoli, decessi sul lavoro, precarietà e sfruttamento. Ma perché questo? Proprio in virtù della condizione di precarietà dovuta all'assenza di documenti o ai permessi di soggiorno da rinnovare, quella perenne condizione di vulnerabilità.
La cittadinanza può davvero essere una soluzione?
Non basta semplicemente la cittadinanza per sanare tutte le voragini che riguardano lo sfruttamento del lavoro. Sarebbe necessaria una riforma totale del lavoro a tutela di tutti i lavoratori. I quesiti referendari vanno tutti in una direzione di tutela. Ma per le persone razzializzate, l'acquisizione della cittadinanza può essere un dispositivo che tutela ulteriormente queste persone. Se vincesse il sì e si riducesse il requisito da dieci a cinque anni di residenza, molte più persone potrebbero sottrarsi al ricatto del permesso di soggiorno e accedere a maggiori tutele nel mondo del lavoro.
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